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«Trovate la ragazza» ordina Nemes.

Scilla corre all’asse Saggezza del nobile ottuplice sentiero e sale a balzi la scalinata fino alla piattaforma della Giusta Comprensione. Briareo va all’asse Moralità e salta alla pagoda della Giusta Parola. Nemes prende la terza scalinata, la più alta, verso i padiglioni della Giusta Preoccupazione e della Giusta Meditazione. Col radar incorporato scorge delle persone nell’edificio più alto. Vi giunge in pochi secondi, esamina gli edifici e la parete dello strapiombo, cerca stanze segrete o nascondigli. Niente. Nel padiglione della Giusta Meditazione c’è una giovane donna. Per un istante Nemes pensa che la ricerca sia conclusa. Ma per quanto la donna sia dell’età di Aenea, non è Aenea. Nell’elegante pagoda ci sono altre persone: una donna molto anziana — Nemes la riconosce, è la Scrofa Folgore, l’ha vista al ricevimento del Dalai Lama — l’araldo e capo della sicurezza del Dalai Lama, Carl Linga William Eiheji, e il bambino in persona, il Dalai Lama.

«Dov’è?» dice Nemes. «Dov’è quella che si fa chiamare Aenea?»

Prima che uno degli altri possa rispondere, il guerriero Eiheji estrae dal mantello un pugnale e lo scaglia con la velocità del fulmine.

Nemes lo scansa facilmente. Anche senza passare in tempo rapido, ha reazioni più veloci di gran parte degli esseri umani. Ma quando Eiheji estrae una pistola a fléchettes, Nemes muta di fase, si avvicina all’uomo impietrito, lo include nel proprio campo di fase e lo getta nell’abisso, fuori della finestra pavimento-soffitto. Naturalmente, appena Eiheji lascia il campo di fase di Nemes, pare congelarsi a mezz’aria come un implume uccello gettato dal nido, incapace di volare ma restio a cadere.

Nemes si gira verso il bambino e torna in tempo lento. Dietro di lei, Eiheji lancia un urlo e precipita fuori vista.

Il Dalai Lama guarda a bocca aperta: per lui e per le due donne presenti, Eiheji è semplicemente scomparso da dove si trovava, accanto a loro, ed è ricomparso a mezz’aria fuori della porta shoji del padiglione, come se avesse scelto di teleportarsi a morte.

«Non puoi…» comincia la Scrofa Folgore.

«Hai il divieto di…» comincia il Dalai Lama.

«Non dovresti…» comincia la donna che, immagina Nemes, è o Rachel o Theo, compatriote di Aenea.

Nemes resta in silenzio. Passa in tempo rapido, si avvicina al bambino, lo include nel campo di fase, lo solleva e lo porta di peso alla parete spalancata.

"Nemes!" chiama Briareo dal padiglione della Giusta Opera.

"Che c’è?"

Invece di descrivere a parole sulla banda comune, Briareo usa energia extra per inviare un’immagine. Impietrita nell’aria color seppia, alcuni chilometri più in alto, con una fiamma di fusione solida come colonna azzurra, una nave scende sul pianeta.

"Muta di fase" ordina Nemes.

I monaci e l’anziano lama ci diedero un sacchetto di carta scura con il necessario per il pranzo. Diedero anche ad A. Bettik un’antiquata tuta a pressione del tipo che avevo visto solo nel museo dell’antico volo spaziale a Port Romance; ne offrirono una anche a Aenea e a me, ma le rifiutammo, mostrando la dermotuta che portavamo sotto il giubbotto termico. Quando varcammo la prima Porta Celeste, i milleduecento monaci si girarono a salutarci agitando il braccio e di sicuro due o tremila altri spingevano e allungavano il collo per vederci partire.

A parte noi tre, la grande scalinata era deserta. Ora salivamo con facilità; A. Bettik portava sulla schiena il casco trasparente ripiegato come un cappuccio, Aenea e io non ci eravamo calati sul viso la maschera osmotica. Ciascun gradino era largo sette metri, ma poco alto; la prima parte della salita fu abbastanza facile, con un’ampia terrazza ogni cento gradini. I gradini erano riscaldati dall’interno; così, anche mentre ci inoltravamo nella regione di ghiaccio e neve perenni a metà del T’ai Shan, la scala era sgombra.

Nel giro di un’ora avevamo raggiunto la seconda Porta Celeste, una enorme pagoda rossa con un voltone di quindici metri, e proseguimmo nella salita più ripida lungo la linea di faglia quasi verticale, la Bocca del Drago. Il vento aumentò d’intensità, la temperatura scese di colpo e l’aria divenne pericolosamente rarefatta. Alla seconda Porta Celeste ci eravamo rimessi l’imbracatura e ora ci agganciammo a una delle funi che correvano ai lati della scalinata, regolando la presa della carrucola in modo che agisse da freno se fossimo caduti o se il vento ci avesse spinto giù dai gradini sempre più infidi. Nel giro di qualche minuto A. Bettik gonfiò il casco trasparente e ci segnalò col pollice che tutto era a posto; Aenea e io sigillammo la maschera osmotica.

Continuammo a salire verso la Porta Celeste meridionale, ancora un chilometro più in alto, mentre intorno a noi il mondo sprofondava. Era la seconda volta in poche ore che ci si presentava un simile spettacolo, ma stavolta lo ammirammo appieno ogni trecento gradini, mentre con ansiti rumorosi riprendevamo fiato e guardavamo la luce del primo pomeriggio illuminare i grandi picchi. Tai’an, la Città di Pace, era ormai fuori vista, circa millecinquecento gradini e vari chilometri più in basso, sotto i campi di ghiaccio e le pareti rocciose che avevamo risalito. Mi ricordai che i comunicatori della dermotuta ci consentivano di nuovo l’intimità e dissi: "Come va, ragazzina?".

"Sono stanca" rispose Aenea, ma ravvivò con un sorriso la risposta.

"Puoi dirmi dove siamo diretti?"

"Al Tempio dell’Imperatore di Giada. Si trova sulla vetta."

"Ci avrei giurato" commentai, posando il piede sul largo gradino e alzando l’altro per posarlo sul gradino seguente. A quel punto la scalinata attraversava una sporgenza di roccia e ghiaccio. Se mi fossi girato a guardare di sotto, lo sapevo, avrei rischiato le vertigini. Era molto peggio del volo in parapendio. "Puoi dirmi per quale motivo saliamo al Tempio dell’Imperatore di Giada, mentre alle nostre spalle tutto va al diavolo?"

"Cosa intendi dire?"

"Intendo dire che probabilmente Nemes e i suoi cloni ci danno la caccia. La Pax sta per fare decisamente la sua mossa. Tutto va a rotoli. E noi andiamo in pellegrinaggio."

Aenea annuì. Ora il vento rombava anche nell’aria molto rarefatta: nel salire, infatti, eravamo entrati nella corrente a getto. Procedevamo a testa china, col corpo piegato, come sotto un pesante fardello. Mi domandai a che cosa pensasse l’androide.

"Perché non chiamiamo la nave e ce la filiamo in fretta e furia?" ripresi. "Se dobbiamo svignarcela, decidiamoci una buona volta."

Potevo vedere gli occhi di Aenea dietro la maschera che rifletteva l’azzurro sempre più scuro del cielo. "Appena chiameremo la nave" replicò la mia amica "venti o trenta navi della Pax caleranno su di noi come arpie. Non possiamo chiamarla, finché non saremo pronti."

Indicai la ripida scalinata. "E salire questa scala ci renderà pronti?"

"Me lo auguro" rispose piano Aenea. Negli auricolari udivo il sibilo del suo respiro.

"Cosa c’è lassù, ragazzina?"

Avevamo completato un’altra serie di trecento scalini. Ci fermammo, ansimanti, troppo stanchi per apprezzare il panorama. Eravamo saliti al limitare dello spazio. Il cielo era quasi nero. Alcune delle stelle più luminose erano visibili e una delle lune più piccole correva a precipizio verso lo zenit. "A meno che non sia una nave della Pax" pensai.

"Non so cosa troveremo, Raul" disse Aenea con voce stanca. "Scorgo di sfuggita degli eventi… continuo a sognarli… ma poi sogno lo stesso evento in un modo diverso. Non mi piace parlarne, finché non vedo quale realtà si presenta."

Annuii come se avessi capito, ma era una bugia. Riprendemmo la salita. "Aenea?"

"Sì, Raul."

"Perché non mi lasci fare… la comunione?"

Vidi la sua smorfia.

"Non mi piace chiamarla così."

"Lo so, ma così la chiamano tutti. Dimmi almeno questo: perché non mi lasci bere il vino?"