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Ci trovammo in una stanzetta quasi spoglia, a parte un vaso di bronzo ornato di bassorilievi, con fiori freschi, alcuni ramoscelli verdeggianti sopra una bassa pedana e una magnifica statua, un tempo dorata, di una donna a grandezza naturale, con vesti che parevano fatte d’oro. La donna aveva le guance paffute e l’espressione amabile, una sorta di Buddha al femminile; portava una corona di foglie dorate e aveva dietro la testa una bizzarra aureola cristiana, d’oro battuto.

A. Bettik si tolse il casco e disse: «L’aria è respirabile. La pressione dell’aria è più che soddisfacente».

Aenea e io ripiegammo i cappucci della dermotuta. Era un piacere respirare normalmente.

Ai piedi della statua c’erano bastoncini d’incenso e una scatola di fiammiferi. Aenea si inginocchiò e accese un bastoncino. Il profumo d’incenso era molto forte.

«Questa è la principessa delle Nubi azzurre» disse, sorridendo al sorriso della faccia dorata. «La dea dell’alba. Accendendo il bastoncino d’incenso ho appena fatto un’offerta per la nascita di nipoti.»

Iniziai a sorridere e mi bloccai. "Lei ha un figlio. La mia amata ha già un figlio." Mi sentii stringere la gola e guardai dall’altra parte, ma Aenea si avvicinò e mi prese per il braccio.

«Pranziamo?»

Mi ero dimenticato del sacchetto di carta con il pranzo. Sarebbe stato difficile pranzare senza togliersi il casco o le maschere osmotiche.

Ci sedemmo nella fioca luce della stanza priva di finestre, fra le volute di fumo e il profumo d’incenso, e mangiammo i panini preparati dai monaci.

«E ora dove andiamo?» dissi, mentre Aenea avviava il ciclo della camera stagna.

«Ho sentito dire che sul lato orientale della vetta c’è un precipizio, il baratro dei Suicidi» disse A. Bettik. «Un luogo per un serio sacrificio. Saltare da lì, si dice, fornisce istantanea comunione con l’Imperatore di Giada e assicura che la richiesta di chi si offre venga esaudita. Se vuole davvero garantirsi dei nipoti, potrebbe fare il salto da lì.»

Fissai a bocca aperta l’androide. Non avevo mai capito se avesse il senso dell’umorismo o semplicemente una personalità fuori squadra.

Aenea scoppiò a ridere. «Andiamo prima al Tempio dell’Imperatore di Giada» disse. «Vediamo se c’è qualcuno in casa.»

Appena fuori, fui subito colpito dall’isolamento della dermotuta e dalla nitidezza di ogni cosa nell’assenza di aria. La maschera osmotica era diventata quasi opaca per la non filtrata ferocia del sole di mezzodì a quella altitudine. Le ombre erano nette e aspre.

Eravamo a circa cinquanta metri dalla vetta e dal tempio, quando una figura uscì dal buio dell’ombra gettata da un masso e ci bloccò la strada. Pensai: "Lo Shrike!" e scioccamente strinsi i pugni, ancora prima di vedere di chi si trattava.

Davanti a noi c’era un uomo molto alto, in tuta da combattimento nel vuoto dello spazio, squarciata da colpi di lancia a energia. Armatura standard dei marines della Flotta della Pax e delle guardie svizzere. Scorgevo il viso dietro il visore antimpatto: pelle nera, lineamenti forti, capelli a spazzola, bianchi. L’uomo aveva sul viso cicatrici livide, recenti. Negli occhi, un’espressione non proprio amichevole. Portava un fucile d’assalto multiuso classe marines; lo alzò e lo puntò contro di noi. La sua trasmittente era sintonizzata sulla banda delle dermotute.

"Alt!"

Ci fermammo.

Il gigante parve incerto su cosa fare. "Alla fine la Pax ci ha presi" fu il mio primo pensiero.

Aenea avanzò di un passo. "Sergente Gregorius?" La sua voce giunse anche a me, sulla banda della dermotuta.

L’uomo piegò di lato la testa, ma non abbassò l’arma. Non dubitavo che il fucile funzionasse perfettamente nel vuoto, che sputasse nugoli di fléchettes, o energia, o un raggio di particelle a carica elettrica, o proiettili di piombo o ipercinetici. La bocca del fucile era puntata contro il viso di Aenea.

"Come fai a sapere che mi chiamo…" cominciò il gigante e poi parve vacillare all’indietro. "Sei lei. La ragazza. Quella che abbiamo cercato per tutto questo tempo, per tanti sistemi solari. Aenea."

"Sì" disse Aenea. "Ci sono altri superstiti?"

"Tre" rispose l’uomo che Aenea aveva chiamato Gregorius. Indicò alla sua destra e riuscii appena a scorgere una nera cicatrice sulla roccia nera e i resti anneriti di qualcosa che poteva essere stato un modulo di emergenza per abbandonare una nave in avaria.

"Il padre capitano de Soya è fra loro?" domandò Aenea.

Ricordai il nome. Ricordai la voce di de Soya alla radio della navetta, quando il padre capitano ci aveva trovato, salvato da Nemes e poi lasciato su Bosco Divino, tanto tempo fa, quasi dieci degli anni di Aenea.

"Sì" disse il sergente Gregorius "il capitano è vivo, ma appeso a un filo. Ha riportato gravi ustioni a bordo della povera Raffaele. Se non fosse svenuto, sarebbe ridotto in atomi come la nave; così invece sono riuscito a trascinarlo in una scialuppa di salvataggio. Gli altri due sono feriti, ma il padre capitano sta per morire." Abbassò il fucile e vi si appoggiò stancamente. "Morire della vera morte… non abbiamo culle di risurrezione. Il padre capitano mi ha fatto promettere di disintegrarlo, appena morto. Non vuole risuscitare come un idiota privo di cervello."

Aenea annuì. "Puoi portarmi da lui? Ho bisogno di parlargli."

Gregorius si mise in spalla il pesante fucile e guardò con sospetto A. Bettik e me. "Quei due…"

"Lui è un mio caro amico" disse Aenea, toccando il braccio di A. Bettik. "E questo è l’uomo che amo."

Il gigantesco sergente si limitò ad annuire, si girò e ci precedette per l’ultimo tratto di pendio fino alla vetta e al Tempio dell’Imperatore di Giada.

PARTE TERZA

22

Su Hyperion, a varie centinaia di anni luce, in direzione del centro galattico, dal pianeta T’ien Shan e dagli eventi che vi accadevano e dalle persone coinvolte, un vecchio e dimenticato signore uscì dal sonno senza sogni della crio-fuga a lungo termine e a poco a poco prese coscienza dell’ambiente che lo circondava. L’ambiente era un letto a sospensione senza contatto, un gruppo di moduli per sopravvivenza che lo circondavano e lo annusavano come altrettanti rapaci pasteggianti, innumerevoli tubicini, cavetti e cordoni ombelicali che concludevano il compito di nutrirlo, disintossicargli il sangue, stimolargli i reni, portare antibiotici a combattere le infezioni, controllare i segni vitali e in genere invadere il suo corpo e la sua dignità al fine di riportarlo in vita e mantenervelo.

«Ah, cazzo» gracchiò l’anziano signore. «Per i vecchi allo stadio terminale, svegliarsi è un maledetto fottuto merdoso incubo fotticadaveri. Darei un milione di marchi per scendere semplicemente dal letto e farmi una bella pisciata.»

«Buon giorno a lei, signor Sileno» disse l’androide femmina che controllava sul biomonitor sospeso i segni vitali del vecchio poeta. «Oggi pare di buon umore.»

«’fanculo tutte le puttanelle dalla pelle azzurra» biascicò Martin Sileno. «Dove sono i miei denti?»

«Ancora non le sono ricresciuti, signor Sileno» disse l’androide. Si chiamava A. Raddik e aveva poco più di tre secoli, meno di un terzo degli anni della vecchissima mummia a mezz’aria nel letto a sospensione.

«Non ne avrò bisogno» brontolò il vecchio. «Non starò merdosamente sveglio a lungo. Da quanto sono sotto?»

«Due anni, tre mesi e otto giorni» rispose A. Raddik.