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Eravamo tutti seduti sui gradini del pozzetto. Mi ricordai del tubo sigillato che de Soya aveva voluto darmi. Lo rigirai tra le mani.

«Su, lo apra» disse il sergente Gregorius. Si toglieva a poco a poco gli strati esterni dell’armatura da combattimento piena di squarci. Bruciature di lancia a energia avevano fuso gli strati inferiori. Pensai con sgomento alle condizioni del petto e del braccio sinistro del sergente.

Esitai: avevo detto che avrei aspettato che il prete capitano si fosse ripreso.

«Su, lo apra» ripeté Gregorius. «Il capitano ha aspettato nove anni l’occasione per restituirglielo.»

Non riuscivo a immaginare quale potesse essere il contenuto del tubo. E poi, come mai quell’uomo sapeva che un giorno o l’altro mi avrebbe incontrato? E come poteva avere qualcosa di mio da restituire?

Ruppi il sigillo del tubo e guardai dentro. Una sorta di tessuto strettamente arrotolato. Cominciavo finalmente a capire. Estrassi l’oggetto e lo srotolai per terra.

Aenea rise, deliziata. «Oddio!» esclamò. «In tutti i miei sogni su questo periodo non l’avevo mai previsto. Fantastico!»

Era il tappeto Hawking, il tappeto volante che, quasi dieci anni fa, aveva portato Aenea e me lontano dalla valle delle Tombe del Tempo. L’avevo perduto a… Impiegai un paio di secondi per ricordare dove. L’avevo perduto su Mare Infinitum, nove anni prima, quando il tenente della Pax che avevo appena tirato in salvo sul tappeto si era avventato contro di me, aveva estratto un coltello, mi aveva ferito e spinto in mare. Poi cos’era accaduto? Gli stessi uomini dell’ufficiale della Pax, sulla piattaforma marina galleggiante, avevano ucciso il loro superiore, con un nugolo di fléchettes; il tenente era caduto nel mare violetto e il tappeto Hawking era volato via… no, qualcuno sulla piattaforma l’aveva intercettato.

«Com’è finito nelle mani del padre capitano?» domandai. Già nel fare la domanda intuii la risposta. A quel tempo de Soya era il nostro implacabile inseguitore.

Gregorius annuì. «Il padre capitano ha trovato nel tappeto campioni del suo sangue e del suo DNA. Così abbiamo ottenuto dai militari della Pax su Hyperion il suo stato di servizio. Se avessimo avuto delle tute pressurizzate, oggi avrei usato quel maledetto aggeggio per scendere da quella montagna priva d’aria.»

«Funziona ancora?» dissi, sorpreso. Toccai i fili di volo. Il tappeto Hawking, più sbrindellato di quanto non ricordassi, si librò a dieci centimetri dal pavimento. «Che il diavolo mi porti!» esclamai.

"Saliamo alla fenditura secondo le coordinate che mi avete dato" annunciò la nave.

La scena nel pozzetto olografico si schiarì e mostrò la cresta Jo-kung che scorreva velocemente sotto di noi. Rallentammo e restammo librati un centinaio di metri nel vuoto. Eravamo tornati alla stessa valle boscosa dove la nave mi aveva scaricato più di tre mesi fa. Ma ora la verde vallata era piena di gente. Vidi Theo, Lhomo, molti altri del Tempio a mezz’aria. La nave si abbassò, rimase librata, aspettò ordini.

«Cala la rampa» disse Aenea. «Lascia che salgano a bordo.»

"Posso ricordarle" disse la nave "che ho cuccette di crio-fuga e attrezzature di supporto vita per un massimo di sei persone, in caso di un lungo balzo interstellare? Vedo almeno cinquanta persone lì nella…"

«Cala la rampa e prendile a bordo» ordinò Aenea. «Immediatamente.»

La maggior parte di coloro che erano rimasti al Tempio a mezz’aria ora si trovavano nella fenditura: molti monaci del tempio, il Tromo Tachi di Dhomu, l’ex soldato Gyalo Thondup, Lhomo Dondrub (fummo lieti di vedere che il parapendio l’aveva riportato al sicuro e dai suoi sorrisi e abbracci il piacere era reciproco), l’abate Kempo Ngha Wang Tashi, Chim Din, Jigme Taring, Kuku e Kay, George e Jigme, Labsang fratello del Dalai Lama, i muratori Viki e Kim, il sovrintendente Tsipon Shakabpa, Rimsi Kyipup, meno tetro di quanto non l’avessi mai visto, i montatori Haruyuki e Kenshiro, nonché gli esperti di bambù Voytek e Janusz, perfino il sindaco di Jo-kung, Charles Chi-kyap Kempo. Ma non c’era il Dalai Lama. E non c’era neppure la Dorje Phamo.

«Rachel è tornata a prenderli» disse Theo, ultima a salire a bordo. «Il Dalai Lama ha insistito per essere l’ultimo ad andarsene e la Scrofa Folgore è rimasta a tenergli compagnia fino al momento di partire. Ma ormai dovrebbero essere scesi. Ero pronta a risalire la cornice per vedere…»

Aenea scosse la testa. «Andremo insieme.»

Non c’era modo di far sedere e sistemare tutti: chi girava per le scale, chi stava in piedi nella biblioteca, chi era andato anche nella stanza da letto all’apice della nave per guardare dalla parete trasparente, chi si era fermato nel piano delle cuccette di crio-fuga o più giù nella sala macchine.

«Andiamo, Nave» disse Aenea. «Al Tempio a mezz’aria. Approccio diretto.»

Per la nave, l’approccio diretto fu una rapida accensione dei razzi, un arco di quindici chilometri nell’atmosfera e poi una caduta verticale sui repulsori, con l’intervento del motore principale all’ultimo istante. L’intera manovra richiese circa trenta secondi; il campo di contenimento impedì che restassimo tutti spiaccicati e la vista dalla parete trasparente di sicuro disorientò chi guardava fuori. Aenea, A. Bettik, Theo e io guardavamo il pozzetto olografico e anche quello spettacolo ridotto fu sconvolgente: mi venne voglia di afferrarmi alle paratie o di aggrapparmi al tappeto. Scendemmo a grande velocità e restammo librati cinquanta metri sopra il complesso del tempio.

«Maledizione!» esclamò Theo.

Avevamo visto un uomo precipitare nelle nubi sottostanti. Anche volendo, non avremmo potuto lanciarci in picchiata e prenderlo al volo: in un attimo lo sventurato era stato inghiottito dalle nubi.

«Chi era?» disse Theo.

«Nave» ordinò Aenea «ripeti e ingrandisci.»

Lo sventurato era Carl Linga William Eiheji, la guardia del corpo del Dalai Lama.

Qualche secondo più tardi, alcune figure emersero dal padiglione della Giusta Meditazione e si fermarono sulla piattaforma più alta, quella che meno di un mese prima avevo contribuito a costruire su progetto di Aenea.

«Merda» mi lasciai scappare. Nemes portava in una mano il Dalai Lama e lo teneva oltre il margine della piattaforma, sospeso nel vuoto. Dietro di lei c’erano i due cloni, maschio e femmina. Poi dall’ombra emersero anche Rachel e la Dorje Phamo.

Aenea mi strinse il braccio. «Raul, vuoi venire fuori con me?»

Aveva ordinato alla nave di estendere la loggia dietro lo Steinway, ma capii che non si riferiva solo a quello. «Certo» risposi, pensando: "È questa, la sua morte? Ciò che ha previsto prima di nascere? O è la mia morte?". «Certo che vengo» ripetei.

A. Bettik e Theo si mossero per uscire con noi sulla loggia. «No, per favore» disse Aenea. Toccò per un istante la mano dell’androide. «Puoi vedere tutto da dentro, amico mio.»

«Preferirei essere con lei, signorina Aenea» disse A. Bettik.

Aenea annuì. «Stavolta tocca a me e a Raul soltanto.»

A. Bettik chinò brevemente la testa e tornò a guardare l’immagine olografica. Nessuno di quelli nella biblioteca e sulla scala a chiocciola disse una parola. Nella nave c’era silenzio assoluto. Uscii con la mia amica nella loggia.

Nemes teneva ancora il Dalai Lama sospeso nel vuoto. Adesso eravamo venti metri più in alto di lei e dei suoi cloni. Mi domandai a quale altezza potessero arrivare con un salto.

«Ehi!» gridò Aenea.

Nemes alzò gli occhi. Mi tornò in mente l’effetto del suo sguardo: pareva di essere fissati da due orbite vuote. In quella creatura non c’era niente di umano.

«Mettilo giù» disse Aenea.

Nemes sorrise e lasciò andare il Dalai Lama. Con la sinistra lo afferrò al volo all’ultimo istante. «Soppesa bene le parole, bambina» disse.

«Se liberi lui e le due donne, vengo giù io.»

Nemes scrollò le spalle. «Tanto da qui non andresti via in ogni caso» disse, con voce normale, che però si udiva perfettamente.