«Non prendertela. Secondo me, hai un aspetto interessante. Resterei così, se fossi in te, Raul. E poi, pare che Aenea abbia un debole per uomini più anziani di lei. E in questo momento sembri certo più anziano.»
«Oh, grazie» dissi, ironico.
«Non c’è di che» replicò Rachel. «Capsula, apri diaframma. Accesso allo stelo connettore pressurizzato principale.»
Scalciò per darsi la spinta e mi guidò fuori, varcando l’apertura a diaframma comparsa nella parete.
Appena entrai nella stanza, o capsula, Aenea mi abbracciò così forte da farmi meravigliare che le costole rotte non avessero ceduto di nuovo. Ricambiai l’abbraccio con altrettanta forza.
Il breve viaggio nello stelo connettore pressurizzato era stato abbastanza normale, se si considera normale essere proiettati lungo una tubatura flessibile, trasparente, del diametro di due metri, a una velocità che toccava secondo la mia stima i sessanta chilometri orari (si usavano correnti di ossigeno spinte a grande velocità in direzioni opposte per favorire i movimenti del nuoto nell’aria) mentre altre persone, quasi tutte magrissime, glabre e incredibilmente alte, ti saettavano accanto, senza rumore, in senso contrario, a 120 all’ora, e ti mancavano di centimetri. Poi c’erano state le capsule del mozzo, dove io e Rachel fummo spinti a grande velocità, come corpuscoli proiettati nei ventricoli e nelle auricole di un enorme cuore, e dove rotolammo, scalciammo ed evitammo altri viaggiatori a grande velocità, per poi uscire da una delle decine di altre aperture dello stelo connettore. Nel giro di qualche minuto mi ero perso, ma Rachel pareva conoscere la strada (mi mostrò che nel tessuto vegetale sopra ogni uscita erano impressi tenui colori) e ben presto ci trovammo in una capsula non molto più grande della mia, ma piena di armadietti, di zone per sedersi sfruttando fasce di lappolite, e di persone. Alcune — Aenea, A. Bettik, Theo, la Dorje Phamo e Lhomo Dondrub — le conoscevo bene; altre — il padre capitano de Soya, chiaramente rimesso in sesto e guarito dalle terribili ferite, con indosso calzoni neri da prete, tonaca e collare rigido; il sergente Gregorius nella tuta da combattimento delle guardie svizzere — le avevo incontrate di recente e le conoscevo di vista; altre ancora, come gli alti, magri, ascetici Ouster e gli incappucciati templari, erano meravigliose e insolite, ma rientravano pur sempre nel mio campo di comprensione; mentre due dei presenti, che Aenea mi presentò come il templare Vera Voce dell’Albero Het Masteen e l’ex colonnello della Force dell’Egemonia Fedmahn Kassad, mi erano noti per fama, ma non avrei mai pensato di incontrarli di persona. Più di Rachel o della madre di Aenea, Brawne Lamia, quei due, nonché personaggi usciti dai Canti del vecchio poeta, erano archetipi del mito, morti da secoli come minimo e probabilmente mai esistiti nel fisso, quotidiano, mangia-dormi-e-usa-il-bagno, firmamento delle cose.
E infine, in quella capsula Ouster a gravità zero, c’erano altre persone che non erano affatto persone, almeno dal mio punto di vista: gli esseri verde salice che Aenea mi presentò come LLeeoonn e OOeeaall, due dei pochi empatici Seneschai sopravvissuti, originari del pianeta Hebron, alieni e intelligenti. Guardai quelle bizzarre creature, pelle e occhi del più chiaro verde acerbo; corpi così sottili che avrei potuto circondare con le dita il torace; simmetrici come noi, con due gambe, due braccia, una testa, ma nient’affatto simili a noi; membra articolate come linee singole, continue, fluide, non frutto di evoluzione da ossa incernierate e cartilagini; dita palmate come zampe di rospo e testa più simile a quella di un feto umano che di un adulto. Le pupille erano poco più di puntini in ombra nel verde incarnato del volto.
Secondo l’opinione comune, i Seneschai si erano estinti nei primi tempi dell’Egira, erano poco più di una leggenda, ancora meno reali del colonnello Kassad o del templare Het Masteen.
Quando Aenea ci presentò, una di quelle verdi leggende mi sfiorò la palma, con la mano dotata di sole tre dita.
Nella capsula c’erano altre entità non-umane, non-Ouster, nonandroidi.
Accanto alla parete quasi trasparente della capsula c’erano quelle che parevano grandi piastrine biancoverdastre, morbidi piatti tremuli di morbida materia, ciascuna del diametro di quasi due metri. Avevo già visto quelle forme di vita, sul pianeta di nuvole dove ero stato mangiato dal calamaro volante.
"No, non mangiato, signor Endymion, solo trasportato." Il commento mi echeggiò nella testa.
"Telepatia?" pensai, quasi rivolgendo alle piastrine la domanda. Sul pianeta di nuvole, ricordai, avevo percepito un’ondata di linguaggio-pensiero e mi ero domandato da dove provenisse.
Mi rispose Aenea. «Pare telepatia, ma non c’è niente di misterioso. Gli Akerataeli hanno appreso il nostro linguaggio alla vecchia maniera, i loro simbionti zeplin hanno udito le vibrazioni sonore e gli Akerataeli le hanno decifrate e analizzate. Loro controllano gli zeplin mediante una forma di impulsi concentrati di microonde a lunga portata…»
«La creatura che mi ha inghiottito sul pianeta di nuvole era uno zeplin?»
«Sì» confermò Aenea.
«Simile agli zeplin di Whirl?»
«E a quelli nell’atmosfera di Giove.»
«Pensavo che si fossero estinti per mano dei cacciatori, nei primi anni dell’Egira.»
«Su Whirl furono sterminati» disse Aenea. «E anche su Giove, prima dell’Egira. Ma quando usavi come parapendio il kayak, non ti trovavi né su Giove né su Whirl, eri su un altro gigante gassoso ricco d’ossigeno, seicento anni luce all’interno della Periferia.»
Annuii. «Scusa se ti ho interrotto. Stavi dicendo… impulsi di microonde…»
Aenea fece quel suo tipico gesto aggraziato, come per buttare via qualcosa, che conoscevo da quando lei era bambina. «Gli Akerataeli controllano le azioni dei loro simbionti zeplin mediante precisi stimoli a microonde di centri nervosi e cerebrali. Abbiamo permesso agli Akerataeli di stimolare i nostri centri del linguaggio in modo da "udire" i loro messaggi. Per loro, ritengo, è come suonare un complicato pianoforte…»
Mossi la testa in segno d’assenso, ma non ci capivo un’acca.
«Gli Akerataeli viaggiano anche nello spazio» intervenne il padre capitano de Soya. «Nel corso di eoni hanno colonizzato più di diecimila pianeti giganti gassosi ricchi di ossigeno.»
«Diecimila!» esclamai, stupito. Penso proprio d’essere rimasto qualche secondo a bocca aperta. In milleduecento anni di viaggi spaziali, noi esseri umani avevamo esplorato e colonizzato nemmeno la decima parte di pianeti, rispetto a loro.
«Gli Akerataeli hanno cominciato molto prima di noi» disse piano de Soya.
Guardai le piastrine scosse da lievi vibrazioni. Non avevano occhi che vedessi io e di sicuro non orecchie. Ci udivano? Senza dubbio: uno di loro aveva risposto ai miei pensieri. Potevano leggere la mente, oltre a stimolare pensieri-linguaggio?
Mentre fissavo gli Akerataeli, nella stanza la conversazione fra esseri umani e Ouster riprese.
«L’informazione è attendibile» disse il pallido Ouster che si chiamava, come venni a sapere più tardi, Navson Hamnim. «Almeno trecento navi classe Arcangelo si sono radunate nel sistema Lacaille 9352. In ogni nave c’è un rappresentante dell’Ordine dei cavalieri di Gerusalemme o di Malta. Si tratta decisamente di una grande crociata.»
«Lacaille 9352» ripeté de Soya, pensieroso. «Amarezza di Sibiatu. Conosco quel pianeta. A quando risale l’informazione?»
«Venti ore fa» disse Navson Hamnim. «Ci è giunta mediante l’unica navetta automatica corriere a propulsione Gideon che ci è rimasta: delle tre catturate durante la sua incursione, due sono andate distrutte. Siamo quasi sicuri che la nostra nave di ricognizione sia stata individuata e distrutta qualche secondo dopo il lancio della navetta corriere.»
«Trecento Arcangelo» disse de Soya. Si strofinò le guance. «Se sanno che siamo al corrente dei loro movimenti, possono fare un balzo Gideon da questa parte nel giro di giorni, di ore. Considerando due giorni per la risurrezione, forse abbiamo meno di tre giorni per prepararci. Le difese sono state migliorate, dopo la mia partenza?»