Alcuni minuti più tardi Aenea mi lasciò le mani, si mosse in alto e in avanti, mentre continuavamo a ruzzolare insieme, mi piantò le unghie nella schiena senza smettere di baciarmi con folle urgenza; poi staccò la bocca per ansimare e mandare un grido, una volta, sottovoce. Nello stesso istante del suo grido, sentii il suo caldo universo chiudersi intorno a me, con quel breve, stretto fremito, quell’intimo impulso condiviso. Dopo un attimo fui io ad ansimare, ad aggrapparmi a lei mentre fremevo in lei, a bisbigliarle contro il collo salato e l’aureola di capelli: «Aenea… Aenea». Una preghiera. La mia unica preghiera allora. La mia unica preghiera adesso.
Galleggiammo insieme a lungo, anche dopo essere tornati di nuovo due persone anziché una sola. A gambe ancora intrecciate, ci accarezzavamo e tenevamo stretti. Le baciai la gola e sentii la sua pulsazione come il ricordo di un’eco sulle mie labbra. Le passai le dita fra i capelli sudati.
In quel momento, capii, nessun evento del passato contava. Nessun terribile evento nel futuro contava. Ciò che contava era la sua pelle contro la mia, la sua mano che mi teneva, il profumo dei suoi capelli e della pelle, il tepore del suo alito sul mio petto. Quello era satori. Quella era verità.
Con una spinta del piede Aenea si accostò all’armadietto, il tempo necessario per prendere un piccolo asciugamano caldo e bagnato. A turno ci togliemmo un po’ del sudore. La camicia mi passò vicino: pareva che le maniche vuote tentassero di nuotare nella lieve corrente d’aria. Aenea rise e si attardò nel ripulire e asciugare, semplice atto che divenne rapidamente tutt’altra cosa.
«Oops!» Mi sorrise. «Com’è accaduto?»
«Legge di Newton?» dissi.
«Ipotesi sensata» bisbigliò lei. «Quale sarebbe allora la reazione, se facessi… così?»
Il risultato istantaneo del suo esperimento lasciò sorpresi, penso, tutt’e due.
«Mancano delle ore alla riunione con gli altri sulla nave-albero» mormorò Aenea. Disse qualcosa alla capsula e la parete ricurva divenne trasparente. Fu come galleggiare fra gli innumerevoli rami dalle foglie grandi come vele, un momento bagnati dal calore del sole e poi, appena guardavamo l’altro lato della capsula trasparente, sommersi nella notte e nelle stelle.
«Non preoccuparti» disse Aenea. «Noi vediamo fuori, ma dall’esterno la parete è opaca. Riflettente.»
«Come fai a esserne sicura?» Le baciai di nuovo il collo, cercai la morbida pulsazione.
Aenea sospirò. «Non possiamo esserne sicuri, immagino, senza uscire e guardare dentro. Un problema alla David Hume.»
Cercai di ricordare le letture di filosofia a Taliesin West, ricordai le nostre discussioni su Berkeley, Hume e Kant, ridacchiai. «C’è un altro modo per controllare» dissi, strofinandole con i piedi i polpacci e la parte posteriore delle gambe.
«Quale?» mormorò Aenea, a occhi chiusi.
«Se si vede dentro» dissi, galleggiando dietro di lei, strofinandole la schiena senza lasciare che lei si allontanasse «nel giro di trenta minuti qui fuori ci sarà una gran folla di angeli Ouster e di navi-albero templari e di coltivatori di comete.»
«Già» disse Aenea, occhi ancora chiusi. «E perché sarebbe qui?»
Cominciai a mostrarle il perché.
Aenea aprì gli occhi. «Oddio» disse piano.
Temetti di averla sconvolta.
«Raul?»
«Mmmm?» mugolai, senza smettere ciò che facevo. Chiusi gli occhi.
«Forse hai ragione sulla superficie esterna riflettente della capsula» bisbigliò lei. Poi sospirò di nuovo, più a fondo.
«Mmmhmm?» mugolai.
Mi afferrò le orecchie, si rigirò, si tirò più vicino. «Perché non lasciamo trasparente l’esterno e rendiamo riflettente la parete interna?»
Spalancai di colpo gli occhi.
«Scherzavo» bisbigliò Aenea. Si scostò dalla parete della capsula e mi tirò con sé nella sfera centrale di aria calda.
Le stelle fiammeggiarono intorno a noi.
Per la cena e la successiva discussione sulla Yggdrasill ci vestimmo formalmente di nero. Ero teso per l’entusiasmo di trovarmi a bordo di una delle leggendarie navi-albero e rimasi un po’ deluso quando capii di non essermi accorto del momento in cui eravamo passati dai rami della biosfera al tronco della nave-albero. Solo quando vidi centinaia di noi radunati su una serie di piattaforme e di capsule aperte, quando vidi la nave-albero allontanarsi dalle circostanti foglie grandi come città e dai rami grandi come province e dai tronchi grandi come continenti, solo allora capii che eravamo a bordo e che ci muovevamo.
Di sicuro la Yggdrasill era lunga più di un chilometro, dalla stretta chioma d’albero al luminoso sistema di radici di ribollente energia di fusione. Dopo la partenza, sulla nave tornò una certa gravità, probabilmente solo una piccola percentuale di microgravità, che comunque riuscì a sconcertarmi, dopo tanto tempo a gravità zero. Però fu utile per sistemarci e così riuscimmo a sederci ai tavoli e a guardarci in faccia, anziché galleggiare alla ricerca di una posizione educata; pensai a Aenea e alle nostre ultime ore insieme e diventai tutto rosso. Nelle piattaforme a gradinata c’erano tavoli e sedie; molti ospiti che non si erano seduti sui gradini affollavano i fragili ponti sospesi tra le piattaforme e rami molto più esterni o le scale a chiocciola che salivano a spirale tra rami e foglie e legavano come liane il tronco centrale; oppure se ne stavano appollaiati su liane dondolanti e sui rigogliosi pergolati.
Aenea e io eravamo seduti al rotondo tavolo centrale, con la Vera Voce dell’Albero Het Masteen, i capi Ouster e una quarantina fra templari, profughi da T’ien Shan e altri. Io ero subito alla sinistra di Aenea. I dignitari templari erano alla sua destra. Ancora adesso ricordo il nome di molti dei presenti intorno al tavolo centrale.
Oltre al capitano della nave-albero, Het Masteen, c’erano altri sei templari, compreso Ken Rosteen, presentato come Vera Voce dell’Albero Stella, sommo sacerdote del Muir e portavoce della confraternita. La decina di Ouster comprendeva Systenj Coredwell e Navson Hamnim, ma anche altri che assomigliavano ben poco a quei due alti e magri archetipi Ouster: Am Chipeta e Kent Quinkent, due Ouster più bassi e più scuri (marito e moglie, pensai) con occhi vivaci e dita prive di membrana; Sian Quintana Ka’an, una Ouster che o indossava una risplendente veste di lucide piume oppure era nata con quelle, e i suoi compagni piumati di azzurro Paul Uray e Morgan Bottoms. Altri due, Drivenj Nicaagat e Palou Koror, rispecchiavano meglio la tipologia Ouster, perché erano adattati al vuoto spaziale e per tutta la cena mantennero l’argentea dermotuta.
Erano presenti anche quattro Seneschai Aluit di Hebron: LLeeoonn e OOeeaall, che avevo già conosciuto nella precedente riunione, e un’altra coppia di flessuose figure verdi che Aenea mi presentò come AAllooee e NNeelloo. Immaginai che i quattro fossero imparentati o legati da qualche complicata relazione matrimoniale.
Pensai che gli alieni Akerataeli fossero assenti, ma Aenea mi indicò un punto molto distante fra i rami, dove la microgravità era ancora minore; lassù, fra ragnatelidi e fulgidi carenidi, si libravano gli esseri simili a piastrine. Anche gli erg che controllavano il campo di contenimento della nave-albero erano presenti per procura, sotto forma di tre cubi di Moebius con dischi traduttori incastonati nelle matrici.
Il padre capitano Federico de Soya sedeva alla mia sinistra e il suo aiutante, sergente Gregorius, un posto più in là. Accanto al sergente c’era il colonnello Fedmahn Kassad in grande uniforme nera della Force: pareva un ologramma del passato dell’Egemonia. Dopo Kassad sedeva la Scrofa Folgore, austera e orgogliosa come il vecchio militare della Force, mentre accanto a lei, occhi vispi e attenti, sedeva Getswang Ngwang Lobsang Tengin Gyapso Sisunwangyur Tshungpa Mapai Dhepal Sangpo, il piccolo Dalai Lama.
Tutti gli altri profughi da T’ien Shan erano da qualche parte nella piattaforma da pranzo; vidi Lhomo Dondrub, Labsang Samten, George e Jigme, Haruyuki, Kenshiro, Viki, Kuku, Kay e altri al tavolo principale. Accanto ai templari, dall’altra parte del tavolo rispetto a noi, c’erano A. Bettik, Rachel e Theo Bernard. Rachel non staccava gli occhi dal colonnello Kassad se non per guardare Aenea che parlava. Era come se per lei tutti gli altri non ci fossero.