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Le misi il dito sulle labbra. Le asciugai a baci le lacrime sulle guance e sulle ciglia. «Non parlare di cadere o di vivere l’uno senza l’altra» le ordinai. «Il mio piano è semplice: stare con te per sempre, in ogni circostanza, condividere tutto. Ciò che accade a te accade a me, ragazzina. Ti amo, Aenea.» Galleggiamo insieme nell’aria calda. La cullavo tra le braccia.

«Sì» mormorò Aenea, stringendomi con ferocia. «Ti amo, Raul. Insieme. Tempo. Sì.»

Allora smettemmo di parlare. Sentii nei nostri baci il sapore del vino e del sale delle sue lacrime. Ci amammo per altre ore e poi andammo a dormire insieme, galleggiammo intrecciati l’una nell’abbraccio dell’altro come due creature marine, come una sola, complessa, creatura marina, alla deriva in una marea calda e favorevole.

26

Il giorno seguente portammo fuori la nave del console, verso il sole.

Mi ero svegliato aspettandomi di sentire una sorta di illuminazione, un improvviso satori dovuto al vino eucaristico, una più profonda comprensione dell’universo nel caso peggiore, onniscienza e onnipotenza nel caso migliore. Invece mi svegliai con la vescica gonfia e un leggero mal di testa, ma con piacevoli ricordi della notte appena trascorsa.

Aenea era già sveglia; quando uscii dal bagno, aveva preparato caffè bollente nel bulbo caffettiera, frutta nel globo di portata e panini appena fatti, belli caldi.

«Non aspettarti un servizio così tutte le mattine» mi disse con un sorriso.

«D’accordo, ragazzina. Domani preparo io la colazione.»

«Frittata?» domandò, porgendomi un bulbo di caffè.

Spezzai il sigillo, inalai l’aroma, strizzai una goccia, attento a non scottarmi le labbra e a non far volare via il globulo di caffè bollente. «Certo» risposi. «Quello che più ti piace.»

«Cerca le uova e buona fortuna» disse Aenea. Terminò in due bocconi il panino. «Questo Albero Stella è fantastico, ma a corto di galline.»

«Peccato» dissi, guardando dalla parete trasparente della capsula. «Con tanti di quei posti per appollaiarsi!» Cambiai tono, divenni serio. «Ragazzina, a proposito del vino… voglio dire, sono già passate otto ore standard e…»

«E non ti senti diverso» disse Aenea. «Uhm, immagino che tu sia uno di quei rari individui sui quali la magia non funziona.»

«Davvero?»

Di sicuro sembrai allarmato, o sollevato, o l’uno e l’altro, perché Aenea scosse la testa. «No, no, scherzavo. Circa ventiquattro ore standard. Qualcosa sentirai. Te lo garantisco.»

«E se saremo… occupati, quando verrà il momento?» dissi, muovendo su e giù le sopracciglia per sottolineare la frase. Mi ritrovai a galleggiare liberamente a qualche centimetro dal tavolo di lappolite.

Aenea sospirò. «Giù, ragazzo, se non vuoi che inchiodi al loro posto quelle sopracciglia.»

«Uhm.» Le sorrisi da sopra il bulbo di caffè. «Ti amo, quando parli male.»

«Sbrigati» disse Aenea. Mise il suo bulbo vuoto nella lavastoviglie a ultrasuoni e riciclò il sottopiatto.

Mi accontentai di mangiare il panino e di guardare dalla parete l’incredibile panorama esterno. «Sbrigarmi? Perché? Andiamo da qualche parte?»

«Riunione sulla nave» disse Aenea. «Sulla nostra. Poi dobbiamo tornare qui e provvedere all’ultimo approvvigionamento della Yggdrasill per partire domani sera.»

«Perché sulla nostra nave? Non sarà affollata, a confronto di tutto lo spazio che c’è qui?»

«Vedrai» disse Aenea. Aveva indossato morbidi calzoni azzurri da gravità zero, stretti alla caviglia, con una camicetta bianca rimboccata e varie tasche con chiusura a lappolite. Calzava pantofole grigie. Mi ero abituato a girare scalzo nel nostra capsula privata e nei vari steli.

«Cerca di sbrigarti» disse di nuovo Aenea. «La nave decolla fra dieci minuti e ci aspetta una lunga corsa sulle liane per arrivare alla capsula di attracco.»

La nave era davvero affollata. Il campo di contenimento interno manteneva la gravità a un sesto del normale, ma dopo avere dormito in caduta libera, avevo l’impressione di trovarmi su un pianeta di tipo gioviano. Faceva uno strano effetto stare affollati tutti insieme in un solo piano dimensionale, lasciando che andasse sprecato il vasto spazio aereo più in alto. Nel ponte della biblioteca della nave del console, seduti al pianoforte, sulle panche, nelle poltrone superimbottite e sui gradini della piazzuola olografica, c’erano gli Ouster Navson Hamnim, Systenj Coredwell, Sian Quintana Ka’an dal risplendente piumaggio, i due argentei Ouster spazio-adattati Palou Koror e Drivenj Nicaagat, nonché Paul Uray e Am Chipeta. C’era Het Masteen e c’era il suo superiore, Ket Rosteen. C’era il colonnello Kassad, alto come i torreggianti Ouster, e la Dorje Phamo, con l’aria di vecchia e regale signora nella lunga veste grigio ghiaccio che si gonfiava elegantemente nella bassa gravità, e anche Lhomo, Rachel, Theo, A. Bettik, il Dalai Lama. Gli altri esseri senzienti non c’erano.

Parecchi di noi uscirono sulla loggia per guardare la superficie interna dell’Albero Stella rimpicciolire man mano che la nave saliva verso il sole centrale, sulla colonna di azzurra fiamma di fusione.

"Bentornato, colonnello Kassad" disse la nave, quando ci riunimmo nella biblioteca.

Inarcai il sopracciglio in direzione di Aenea, sorpreso che la nave riuscisse a ricordare un passeggero di tanti anni fa.

«Grazie, Nave» disse il colonnello. Pareva turbato, quasi al punto di rimuginare.

La risalita lontano dal guscio interno della biosfera Albero Stella mi diede un senso di vertigine diverso da quello che provavo nel guardare la sfera di un pianeta diventare sempre più piccola e restare indietro. Qui eravamo dentro la struttura orbitale; e mentre la vista da dentro i rami dell’Albero Stella era stata uno scenario di varchi aperti tra le foglie e i tronchi, fuggevoli visioni di campi di stelle sul lato opposto al sole e grandi spazi dappertutto, la vista da un centinaio di chilometri e in salita dava l’impressione di una superficie solida, con le enormi foglie ridotte a una distesa scintillante, in tutto simile a un grande oceano verde, concavo; la sensazione di trovarsi in una enorme ciotola senza la possibilità di uscirne era quasi opprimente.

I rami luccicavano di blu per l’aria intrappolata nei campi di contenimento e conferivano una sorta di bagliore azzurrino alle migliaia di chilometri di legno color del vino e di foglie tremolanti, come se l’intera superficie interna della biosfera avesse una carica elettrica. Da ogni parte c’era vita e movimento: angeli Ouster con ali di un chilometro non solo svolazzavano fra i rami e al di là delle foglie, ma erano lanciati in profondità nello spazio, all’interno verso il sole, più velocemente all’esterno, al di là dei sistemi di radici lunghe diecimila chilometri; una miriade di forme di vita più piccole luccicava nell’azzurro involucro di atmosfera: ragnatelidi radianti, magicinzie, pappagalli, arboricoli azzurri, scimmie della Vecchia Terra, grandi banchi di pesci tropicali che nuotavano in gravità zero alla ricerca delle regioni appannate dalle comete, aironi azzurri, stormi di oche e di colombacci marziani, focene della Vecchia Terra… Fummo portati fuori prima che potessi classificare una minima frazione di ciò che vedevo.

Più avanti divennero palesi le dimensioni delle forme di vita più grandi e degli sciami di forme di vita. Da alcune migliaia di chilometri vedevo, in "alto", i luccicanti armenti di piastrine azzurre in compagnia dei senzienti Akerataeli. Dopo il primo incontro lì con le due creature del pianeta di nuvole, avevo domandato a Aenea se nella biosfera erano presenti altri Akerataeli. "Ce n’è ancora qualcuno" aveva risposto Aenea. "Circa seicento milioni." Adesso li vedevo muoversi senza fatica nelle correnti d’aria da tronco a tronco, estensioni di centinaia di chilometri, in sciami di migliaia, forse decine di migliaia.

E con essi c’erano gli ubbidienti servitori: calamari celesti e zeplin e meduse trasparenti ed enormi sacche di gas munite di tentacoli, simili a quella che mi aveva mangiato nel pianeta di nuvole. Ma più grandi. Sul pianeta di nuvole avevo stimato che il mostruoso calamaro fosse lungo forse dieci chilometri, ma questi animali da lavoro simili a dirigibili erano di sicuro lunghi parecchie centinaia di chilometri, forse di più, contando gli innumerevoli tentacoli, viticci, flagelli, fruste, code, sonde e proboscidi. Capii, guardandoli, che tutte le gigantesche bestie da soma degli Akerataeli erano impegnate in lavori: intrecciare rami e steli e capsule in elaborati biodisegni, potare dall’Albero Stella rami morti e foglie larghe come città, sistemare strutture progettate dagli Ouster o trasportare materiali da una parte all’altra della biosfera.