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Fummo accolti da funzionari locali, festeggiati per qualche momento su affollate piattaforme a un sesto di gravità, fra centinaia di dignitari Ouster e templari, poi condotti in una capsula così vasta che poteva benissimo essere una piccola luna.

Parecchie centinaia di migliaia di Ouster e di templari erano in attesa, insieme con alcune centinaia di Seneschai Aluit e una moltitudine di Akerataeli librati nei pressi della piattaforma centrale. Mi resi conto con sorpresa che gli erg avevano portato il campo di contenimento interno a un comodo valore di un sesto di g, spingendo tutti verso la superficie della sfera; ma poi notai che i sedili continuavano in alto e sopra e intorno a tutto l’interno della sfera. Cambiai la stima della folla: i presenti superavano facilmente il milione di individui.

Il cittadino Ouster Navson Hamnim e la Vera Voce dell’Albero Stella Ket Rosteen presentarono Aenea e dissero che aveva portato con sé il messaggio che il loro popolo attendeva da secoli.

La mia giovane amica salì sul podio, guardò in alto e intorno e in basso, come per stabilire contatto visivo con ogni persona presente nella smisurata sala. Pareva calma. Il sistema acustico era così sofisticato che saremmo riusciti a sentirla deglutire o respirare.

«Scegli ancora» disse Aenea. Si girò, si allontanò dal podio e si accostò al lungo tavolo dove erano disposti i calici.

Centinaia di noi donarono il sangue, solo alcune gocce, e i calici di vino vennero fatti circolare tra i presenti in attesa. Non c’era modo, capii, che un milione di Ouster e di templari in attesa di comunicarsi potessero essere serviti dalle poche centinaia di noi che avevano già ricevuto da Aenea la comunione; ma gli aiutanti trassero gocce di sangue, usando bisturi sterilizzati, le gocce furono trasferite al serbatoio di vino, decine e decine di aiutanti passarono sotto gli zipoli i bulbi a calice e nel giro di un’ora tutti coloro che desideravano fare la comunione col sangue-vino di Aenea furono accontentati. La grande sfera cominciò a svuotarsi.

Dopo le due parole di Aenea, nient’altro era stato detto per l’intera serata. Per la prima volta in quel lungo giorno che pareva eterno, ci fu silenzio nella capsula di trasporto diretta a casa. Casa: la nostra regione dell’Albero Stella all’ombra della Yggdrasill destinata a partire entro venti ore.

Mi ero sentito un impostore. Avevo bevuto il vino quasi ventiquattro ore prima, ma non provavo niente, quel giorno, a parte il solito amore per Aenea, cioè il mio assolutamente insolito, unico amore per Aenea, senza precedenti né uguali.

Tutti quelli che volevano bere, avevano bevuto. La grande sfera si era svuotata, nel silenzio anche di chi non era venuto per accettare la comunione, e non so dire se il silenzio fosse dovuto alla delusione per quel discorso di due parole o alla riflessione su qualcosa che andava al di là e al di sotto del discorso stesso.

Prendemmo la capsula di trasporto per fare ritorno alla nostra regione dell’Albero Stella e restammo anche noi in silenzio, a parte le frasi indispensabili. Non era un silenzio impacciato o deluso, era piuttosto un silenzio di stupore reverenziale confinante con la paura, al termine di una parte della propria vita e all’inizio, speranza di inizio, di un’altra.

Scegli ancora. Aenea e io facemmo l’amore nella capsula soggiorno oscurata, malgrado la stanchezza e l’ora tarda. Fu un atto lento e tenero e quasi insopportabilmente dolce.

Scegli ancora. Furono le ultime parole che avevo in mente, quando infine andai alla deriva, alla lettera, nel sonno.

Scegli ancora. Avevo capito. Avevo scelto Aenea e la vita con Aenea. E credo che lei avesse scelto me.

E avrei scelto lei e lei avrebbe scelto me di nuovo, l’indomani, e il giorno dopo ancora, e in ogni ora di tutti i giorni a venire.

Scegli ancora. Sì. Sì.

27

Mi chiamo Jacob Schulmann. Scrivo questa lettera ai miei amici di Lodz:

"Carissimi amici, ho aspettato a scrivervi per avere conferma di ciò che ho sentito dire. Ahimè, con nostro grande dolore, ormai sappiamo tutto. Ho parlato con un testimone oculare che riuscì a fuggire. Mi ha raccontato ogni cosa. Li sterminano a Chelmno, presso Dombie, e li sotterrano tutti nella foresta di Rzuszow. Uccidono gli ebrei in due modi: con un colpo d’arma da fuoco o con il gas. È appena accaduto a migliaia di ebrei di Lodz. Non crediate che le mie siano le parole di un pazzo. Purtroppo dicono la tragica, orribile verità.

"Orrore, orrore! Uomo, svesti i panni, cospargiti il capo di cenere, corri per le vie e danza nella follia. Sono così stanco da non riuscire più a usare la penna. Creatore dell’universo, aiutaci!"

Scrivo la lettera il 19 gennaio 1942. Alcune settimane più tardi, durante un disgelo di febbraio che è un falso segno di primavera per i boschi intorno a Grabow, la nostra città, noi uomini nel campo veniamo caricati su furgoni. Su alcune fiancate sono dipinti, a colori vivaci, disegni di alberi tropicali e di animali della giungla. Sono i furgoni per i bambini, preparati la scorsa estate, quando portarono via dal campo i più giovani. Durante l’inverno il colore è sbiadito e i tedeschi non si sono presi la briga di ritoccare i disegni, così quegli allegri quadretti paiono svanire come i sogni dell’estate scorsa.

Ci portano a Chelmno, che i tedeschi chiamano Kulmhof, un percorso di quindici chilometri. Qui ci ordinano di uscire dai furgoni e di andare nella foresta a fare i bisogni. Non ci riesco, non sotto gli occhi delle guardie e degli altri, ma fingo di orinare e mi riabbottono i calzoni.

Ci rimettono nei grossi furgoni e ci portano a un vecchio castello. Qui ci ordinano di nuovo di uscire, ci fanno attraversare un cortile disseminato di vestiti e di scarpe, ci fanno scendere in uno scantinato. Sulla parete dello scantinato c’è una scritta in yiddish: "Da qui nessuno esce vivo". Ora nello scantinato siamo centinaia, tutti maschi, tutti polacchi, molti provenienti dai villaggi vicini come Gradow e Kolo, molti da Lodz. L’aria puzza di umidità e di marciume, di pietra gelida e di muffa.

Dopo alcune ore, mentre la luce svanisce, lasciamo vivi lo scantinato. Sono giunti altri furgoni, più grandi, con portellone a due battenti. Sono dipinti di verde. Non hanno disegni sulle fiancate. Le guardie aprono il portellone e vedo che molti di questi furgoni più grandi sono quasi pieni; ciascuno contiene da settanta a ottanta uomini. Non ne riconosco nessuno.

I tedeschi ci spingono e ci picchiano per farci entrare in fretta nei grandi furgoni. Molti di quelli che conosco si mettono a piangere; allora li guido nella preghiera, mentre ci ammucchiano nei furgoni puzzolenti. "Shema Israel" preghiamo. Preghiamo ancora, quando chiudono con un tonfo le portiere.

Fuori, i tedeschi gridano all’autista polacco e ai suoi aiutanti polacchi. Sento uno degli aiutanti gridare: "Gas!" in polacco; mi giunge il rumore di un tubo o di una manichetta, innestato da qualche parte sotto il nostro furgone. Il motore si riaccende con un rombo.

Alcuni di quelli intorno a me continuano a pregare con me, ma molti si mettono a urlare. La macchina comincia a muoversi, molto lentamente. Capisco che prendiamo la stretta strada asfaltata costruita dai tedeschi, quella che da Chelmno si inoltra nella foresta. Gli abitanti dei villaggi sono rimasti stupiti, perché la strada non porta da nessuna parte: si ferma nella foresta e forma uno spiazzo che consente agli autocarri di girare. Ma lì non c’è niente, solo la foresta e i forni che i tedeschi hanno ordinato di costruire e i pozzi che hanno ordinato di scavare. Ce l’hanno detto gli ebrei del campo che lavorarono a quella strada e che scavarono i pozzi e che costruirono i forni. Non ci credemmo, quando ne parlarono; ma poi quelli sparirono, deportati.