L’aria diventa viziata. Le urla crescono. Il cuore mi sanguina. Diventa difficile respirare. Il cuore mi batte forte. Con la sinistra tengo per mano un giovane, anzi un ragazzo, e con la destra un uomo anziano. L’uno e l’altro pregano con me.
Da qualche parte nel nostro furgone qualcuno canta più forte delle urla, canta in yiddish, canta con voce da baritono educata per l’opera Urica:
«Aenea! Mio Dio! Cosa mi succede?»
«Sst. È tutto a posto, amore. Sono qui.»
«Non capisco… cosa?»
Mi chiamo Kaltryn Cateyen Endymion e sono la moglie di Trorbe Endymion, morto cinque mesi fa in un incidente di caccia. Sono anche la madre del piccolo Raul, che ora ha tre anni di Hyperion e al momento gioca vicino al fuoco di bivacco al centro dei carrozzoni, sotto l’occhio vigile delle zie.
Risalgo il pendio erboso della vallata dove i carrozzoni si sono disposti in cerchio per la notte. Ci sono alcuni tripioppi tremuli lungo il ruscello nella vallata, ma per il resto le brughiere sono prive di segni di riferimento, solo erba, erica, artemisia, pietre, sassi arrotondati, licheni. E pecore. Si vedono e si odono centinaia di pecore della carovana, sulle alture verso est: si muovono e si spostano, spinte dai cani da pastore.
Seduta su un affioramento roccioso che consente una bella visuale della valle verso ponente, nonna rammenda vestiti. Una foschia vela l’orizzonte occidentale, significa acqua aperta, il mare; ma il mondo intorno a noi è delimitato da brughiere, dal cielo di un turchese sempre più scuro per il calare della sera, dalle scie di meteoriti che segnano e risegnano silenziosamente quel cielo, dal fruscio dell’erba mossa dal vento.
Mi accomodo su un sasso accanto a nonna. È la madre della mia defunta madre, la sua faccia è la nostra, ma più vecchia, con la pelle segnata dalle intemperie, capelli bianchi e corti, ossa ben marcate in un viso forte, naso affilato, occhi castani circondati da rughe d’allegria.
«Finalmente sei tornata» dice nonna. «Il viaggio è andato bene?»
«Sì» dico. «Tom ci ha portato lungo la costa, da Port Romance, e poi su per la strada del Becco, anziché pagare la tariffa del traghetto e attraversare le paludi. La prima notte ci siamo fermati alla locanda Benbroke, la seconda ci siamo accampati lungo il Suiss.»
Nonna annuisce. Muove abilmente le dita nel lavoro di rammendo. Accanto a sé sulla roccia ha un cesto di vestiti. «E i medici?»
«L’ospedale era molto grande» dico. «I cristiani l’hanno ampliato, dall’ultima volta che siamo stati a Port Romance. Le sorelle, le infermiere, sono state molto gentili, durante gli esami.»
Nonna rimane in silenzio, aspetta.
Guardo giù nella vallata, dove il sole comincia a trovare varchi fra le nubi scure. La luce illumina i fianchi della valle, lancia ombre sottili dietro i bassi macigni e le alture sassose, incendia l’erica.
«Cancro» dico. «Il nuovo ceppo.»
«Questo l’aveva già detto il medico di Moor’s Edge» replica nonna. «Qual è la loro prognosi?»
Prendo una camicia, una di quelle di Trorbe, ma ora appartiene a suo fratello Ley, zio di Raul. Tolgo dalla tasca del grembiule ago e filo e comincio a riattaccare il bottone che Trorbe aveva perso proprio prima della sua ultima spedizione di caccia su a nord. Divento rossa, al pensiero che ho dato a Ley la camicia senza un bottone. «Mi consigliano di accettare la croce» rispondo.
«Non c’è una cura?» dice nonna. «Con tutte le loro macchine e i loro sieri?»
«Una volta c’era. Ma si basava sulla tecnologia molecolare…»
«Nanotec» dice nonna.
«Sì. La Chiesa l’ha messa al bando qualche tempo fa. Sui pianeti più progrediti ci sono altre cure.»
«Ma su Hyperion non ci sono» dice nonna. Mette da parte gli indumenti che aveva in grembo.
«Già.» Mentre parlo, mi sento molto stanca, ho ancora un po’ di nausea per gli esami e per il viaggio, e molto calma. Ma anche tanto triste. La brezza mi porta le risate di Raul e degli altri bambini.
«E consigliano di accettare la croce» dice nonna. L’ultima parola pare tronca e tagliente.
«Sì. Ieri un giovane prete molto gentile mi ha parlato per delle ore.»
Nonna mi guarda negli occhi. «E tu accetterai la croce, Kaltryn?»
Ricambio lo sguardo. «No.»
«Sei sicura?»
«Sicurissima.»
«Trorbe sarebbe di nuovo vivo e con noi, ora, se la scorsa primavera avesse accettato il crucimorfo come supplicava il missionario.»
«Non il mio Trorbe!» dico e giro la testa. Per la prima volta da quando sono iniziati i dolori, sette settimane fa, piango. Non per me, lo so, ma perché rivedo Trorbe sorridere e salutarmi col braccio, quel suo ultimo giorno, al levar del sole, prima di andare con i fratelli a caccia di ribonie di palude vicino alla costa.
Nonna mi tiene la mano. «Pensi a Raul?»
Scuoto la testa. «Ancora no. Fra qualche settimana non penserò ad altro.»
«Non ti devi preoccupare per lui» dice piano nonna. «Non ho ancora dimenticato come si allevano i bambini. Ho sempre storie da raccontare e cose da insegnare. E terrò vivo in lui il ricordo di te.»
«Sarà ancora così giovane, quando…» Mi interrompo.
Nonna mi stringe forte la mano. «I giovani ricordano più a fondo» dice piano. «Quando siamo vecchi e incerti, rivediamo con maggiore chiarezza proprio i ricordi dell’infanzia.»
Il tramonto è brillante, ma offuscato dalle mie lacrime. Tengo la testa girata a mezzo, per non incontrare lo sguardo di nonna. «Non voglio che mi ricordi solo da vecchio. Voglio vederlo… ogni giorno… vederlo giocare e crescere.»
«Ricordi la poesia di Ryokan che ti insegnai quando avevi solo qualche mese più di Raul?»
Non posso fare a meno di ridere. «Mi hai insegnato decine di poesie di Ryokan, nonna.»
«La prima» dice lei.
Mi basta un momento per ricordarla. La recito, evitando il tono cantilenante, proprio come nonna mi insegnò quando avevo qualche mese più di Raul adesso:
Nonna ha chiuso gli occhi: vedo quant’è sottile la pergamena delle sue palpebre. «Quella poesia ti piaceva, Kaltryn.»
«Mi piace sempre.»
«E dice qualcosa sulla necessità di raccogliere verdure la prossima settimana o il prossimo anno o fra dieci anni, per essere felice adesso?»
Sorrido. «Per te è facile dirlo, vecchia» replico, con voce bassa e affettuosa per addolcire la mancanza di rispetto nelle parole. «Tu stai raccogliendo verdure da settantaquattro primavere e conti di continuare per altre settanta.»
«Non ne verranno così tante, credo.» Mi dà un’ultima stretta e mi lascia la mano. «Ma la cosa importante è andare con i bimbi adesso, nel sole di questa sera primaverile, e raccogliere in fretta le verdure, per la cena di stasera. Preparo la tua minestra preferita.»
Batto le mani. «La minestra tramontana? Ma non ci sono i porri.»
«Ci sono, nei prati meridionali, dove ho mandato Lee e i suoi ragazzi a cercarli. Ne hanno una pentola piena. Ora vai a prendere le verdure primaverili da aggiungere alla minestra. Porta con te il tuo bambino e torna prima che sia davvero buio.»
«Ti voglio bene, nonna.»
«Lo so. E Raul ti vuole bene, piccolina. Penserò io a fare in modo che il cerchio non si spezzi. Vai, ora, presto.»
Mi sveglio in caduta libera. Sono sempre stato sveglio. Le foglie dell’Albero Stella hanno fatto ombra alle capsule per la notte e le stelle sul lato esterno del sistema risplendono. Le voci non diminuiscono. Le immagini non svaniscono. Non è come sognare. È un gorgo di immagini e di voci… migliaia di voci in coro, tutte schiamazzanti per farsi udire. Fino a questo istante non ho mai ricordato la voce di mia madre. Quando il rabbino Schulmann gridava in polacco della Vecchia Terra e pregava in yiddish, ho capito non solo la sua voce, ma anche i suoi pensieri.
Divento pazzo.
«No, amore mio, non diventi pazzo» bisbiglia Aenea. Galleggia con me accanto alla calda parete della capsula, mi tiene stretto. Il cronometro del comlog mi dice che il periodo di sonno in questa regione della biosfera Albero Stella è quasi terminato, che fra meno di un’ora le foglie cambieranno posizione per lasciar passare la luce del sole.