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Il padre capitano de Soya alzò la mano. «Chiedo scusa» disse. «Sono stato fuori contatto per diversi anni standard, ma noto che questa task force è composta di navi classe Arcangelo che prendono il nome da arcangeli citati nel Vecchio Testamento.»

«Esatto, padre capitano» disse l’ammiraglio Aldikacti. «La domanda?»

«Semplice curiosità, ammiraglio. Se ben ricordo, gli arcangeli citati per nome nella Bibbia sono solo sette. E le altre navi Arcangelo?»

Intorno al tavolo ci furono delle risatine e de Soya capì d’avere rotto la tensione, come si era riproposto.

Sorridendo, l’ammiraglio Aldikacti disse: «Accogliamo con piacere il ritorno del nostro capitan prodigo e lo informiamo che i teologi del Vaticano hanno fatto ricerche nel Libro di Enoch e negli altri apocrifi per trovare quegli angeli che potrebbero essere promossi "arcangeli onorari" e che lo stesso Sant’Uffizio ha concesso la dispensa per l’uso del loro nome nella Flotta della Pax. Ci è parso… appropriato… che le prime sette navi Arcangelo avessero nomi tratti dalla Bibbia per portare contro il nemico il loro sacro fuoco».

Le risatine si mutarono in mormorii di approvazione e poi in un timido applauso dei comandanti e dei loro ufficiali in seconda.

Non ci furono altre domande. L’ammiraglio Aldikacti disse: «Ah, un’ultima cosa. Se vedete questa nave…». Sopra il centro del tavolo si materializzò l’ologramma di un’astronave d’aspetto bizzarro. Era piccola per gli standard della Flotta della Pax, aerodinamica come se l’avessero progettata per entrare nell’atmosfera, munita di pinne poste accanto ai tubi di scarico delle fiamme di fusione.

«Cos’è?» disse la madre capitano Stone, ancora sorridente per il buon umore nella sala. «Uno scherzo Ouster?»

«No» disse il padre capitano de Soya, in tono basso e piatto. «Tecnologia dell’epoca della Rete. Una nave privata… di proprietà di un individuo.»

Alcuni ufficiali in seconda ridacchiarono.

La tozza mano dell’ammiraglio Aldikacti attraversò l’ologramma e zittì le risate. «Il padre capitano ha ragione» brontolò la donna, con la voce bassa e forte tipica dei lusiani. «È una vecchia nave dell’epoca della Rete, appartenuta a un diplomatico dell’Egemonia.» Scosse la testa. «A quel tempo avevano la ricchezza per simili gesti. Comunque, la nave ha un motore Hawking modificato da tecnici Ouster, potrebbe essere ben armata e deve essere ritenuta pericolosa.»

«Cosa facciamo, se la incontriamo?» domandò la madre capitano Stone. «La prendiamo come trofeo?»

«No» rispose l’ammiraglio Aldikacti. «La distruggete a vista. La vaporizzate. Altre domande?»

Non ce ne furono. Gli ufficiali tornarono ciascuno alla propria nave e si prepararono alla traslazione iniziale. Nella vespa che riportava de Soya alla Raffaele, l’ufficiale in seconda Hoag Liebler chiacchierò amabilmente col suo nuovo capitano, parlando delle qualità della nave e dell’alto morale dell’equipaggio; e intanto pensava: "Mi auguro di non dovere mai uccidere quest’uomo".

6

L’esperienza personale mi ha insegnato che, subito dopo una separazione traumatica, per esempio l’abbandono della famiglia per andare in guerra o la morte di un familiare o il distacco dall’amata senza alcuna garanzia di futura riunione, sopravviene una calma bizzarra, quasi un senso di sollievo, come se il peggio sia ormai accaduto e non si debba temere nient’altro. Così mi sentivo, poco prima dell’alba, in quel piovoso mattino in cui lasciai Aenea sulla Vecchia Terra.

Il kayak, che spingevo a colpi di pagaia, era piccolo e il Mississippi era grande. All’inizio, nel buio, vogavo con un’intensa attenzione molto prossima alla paura, spinto dall’adrenalina, e aguzzavo gli occhi nel tentativo di scorgere ostacoli sommersi, banchi di sabbia, relitti trasportati dalla rabbiosa corrente. In quel tratto il fiume era molto largo, quasi un miglio, calcolai (il Vecchio Architetto usava le arcaiche unità di misura inglesi, piedi iarde miglia, e a Taliesin molti di noi avevano preso l’abitudine di imitarlo), e le rive parevano allagate; si vedevano alberi morti, dove l’acqua era salita di centinaia di metri rispetto alle sponde originarie, spingendo il fiume verso alti dirupi sui due lati.

Circa un’ora dopo essermi separato dalla mia amica, giunse lentamente la luce: dapprima separò le nuvole grigie dal dirupo nerogrigiastro alla mia sinistra, poi gettò un chiarore freddo e smorto sul fiume. Non mi ero sbagliato ad avere paura, nel buio: il fiume era intasato di tronchi sommersi e di lunghi banchi di sabbia simili a dita; grossi alberi impregnati d’acqua, con radici che parevano la testa di un’idra, imperversavano nelle correnti centrali, mi superavano e spazzavano qualsiasi cosa incontrassero con la forza di giganteschi arieti da guerra. Scelsi quella che mi augurai fosse la corrente meno violenta, vogai con forza per stare alla larga dai detriti galleggianti e cercai di godermi il sorgere del sole.

Per tutta la mattina vogai verso sud, senza vedere segno di abitazioni umane sull’una o l’altra riva, a parte una sola fugace visione di edifici antichi un tempo bianchi, sott’acqua fra alberi morti e onde salmastre in quella che un tempo era stata la riva ovest e che adesso era una palude alla base dei dirupi. In due occasioni toccai terra su un’isola: una volta per fare i bisogni e l’altra per riporre nel kayak il piccolo zaino che costituiva il mio unico bagaglio. Durante questa seconda fermata, nel tardo mattino, con il sole che scaldava il fiume e anche me, mi sedetti su un tronco d’albero in secca sulla riva sabbiosa e mangiai uno dei panini di arrosto e mostarda che Aenea aveva preparato per me durante la notte. Avevo portato due bottiglie d’acqua, una da tenere alla cintura e l’altra nello zaino; bevvi con moderazione, perché non sapevo se l’acqua del Mississippi era potabile né quando avrei trovato modo di rifornirmi.

Nel primo pomeriggio vidi davanti a me la città e l’arcata.

Qualche tempo prima, un secondo fiume confluiva nel Mississippi, alla mia destra, e aveva allargato di molto il canale. Immaginai che fosse il Missouri; consultai il comlog e la memoria della nave me ne diede conferma. Poco dopo, vidi l’arcata del teleporter.

Il portale non assomigliava a quelli che avevamo varcato nel nostro viaggio fino alla Vecchia Terra: più grande, più vecchio, più opaco, più striato di ruggine. Forse un tempo l’arcata metallica si era trovata in alto e all’asciutto sulla riva ovest, ma ora spuntava dall’acqua a centinaia di metri dalla riva. Poco lontano emergevano anche resti scheletrici di edifici inondati… bassi "grattacieli" dell’epoca pre-Egira, mi suggerì la mia nuova sensibilità architettonica.

"St. Louis" mi rispose il comlog da polso, quando interrogai l’IA della nave. "Distrutta ancora prima delle Tribolazioni. Abbandonata prima del Grande Errore del ’38."

«Distrutta?» ripetei, indirizzando il kayak verso la gigantesca arcata. Notai solo allora che la riva ovest, dietro l’arco, curvava in un perfetto semicerchio e formava un lago poco profondo. Antichi alberi seguivano la curvatura della ripida riva. Un cratere d’impatto, pensai, ma non avrei saputo dire se causato da un meteorite o da una bomba o dal guasto di un impianto per la produzione di energia o da un altro evento disastroso. «Distrutta come?» domandai al comlog.

"Nessuna informazione. Però ho alcuni dati che riguardano l’arcata davanti a noi."

«Un teleporter, no?» dissi, lottando contro la forte corrente sul lato ovest del canale principale per spingere a est il kayak, verso l’arcata.

"In origine no" disse il comlog. "Le dimensioni e l’orientamento del manufatto coincidono con la posizione e le dimensioni del cosiddetto Gateway Arch, una bizzarria architettonica costruita nella città di St. Louis ai tempi degli Stati Uniti d’America, verso la metà del XX secolo. Doveva simbolizzare l’espansione a ovest dei pionieri di ascendenza europea, egemoni e protonazionalisti che emigrarono da quelle parti nel tentativo di subentrare agli originari indigeni nordamericani pre-Riserve."