Ancora non sapevo che presto proprio lì sarebbe terminato (almeno per un poco) per una ragione completamente diversa. Ma di questo non ebbi alcun preavviso, a parte il mal di schiena che già mi tormentava prima ancora di lasciare Lusus, mentre mi avvicinavo con diffidenza al pozzo, se pozzo era.
Era un pozzo.
La mia alta statura e lo smorto colore dei miei vestiti non causarono reazioni. Nessuno, neppure i bambini vestiti di rosso brillante e di vivido azzurro, che interruppero i giochi per darmi un’occhiata e subito distolsero lo sguardo, interferì né parve notare l’evidente presenza di un forestiero. Mentre bevevo a sazietà e riempivo le due bottiglie, ebbi l’impressione, non so da che cosa originata, che gli abitanti di Vitus-Gray-Balianus B, o almeno di quel villaggio lungo il tratto da tempo abbandonato del fiume Teti, fossero semplicemente troppo educati per fissarmi o per interessarsi dei miei affari. Mentre tappavo la seconda bottiglia e mi giravo per tornare al kayak, mi convinsi che perfino un mutante alieno a tre teste oppure (per fare un esempio più reale, sempre nel regno del bizzarro) lo stesso Shrike avrebbe potuto bere da quel pozzo artesiano, in quel piacevole pomeriggio nel deserto, senza essere avvicinato né interrogato dagli abitanti locali.
Percorsi tre passi sul viottolo polveroso, fui colpito dal dolore. Mi piegai in due, ansimando per la sofferenza, incapace di respirare; caddi sul ginocchio, poi sul fianco. Mi rannicchiai su me stesso, in preda al dolore. Mi sarei messo a urlare, se la terribile sofferenza mi avesse lasciato il fiato e l’energia necessari. Invece no. Boccheggiando come un pesce gettato su quella riva polverosa, mi raggomitolai in posizione fetale e fui travolto da ondate di sofferenza.
Dovrei dire a questo punto che non sono del tutto estraneo al dolore e al disagio. Quando ero nella Guardia nazionale, uno studio dell’esercito di Hyperion mostrava che per la maggior parte i coscritti inviati a sud a combattere i ribelli dell’Artiglio di ghiaccio avevano poco stomaco per il dolore. Gli abitanti delle città del nord-Aquila e delle più raffinate cittadine delle Nove Code avevano sperimentato di rado, se pure l’avevano sperimentato, un dolore che non potessero eliminare ingoiando una pillola o programmando un robochirurgo o recandosi nel più vicino medibox.
In quanto pastore e ragazzo di campagna, ero un po’ più abituato a sopportare il dolore: tagli accidentali con il coltello, un piede rotto perché calpestato da un ibrido da soma, lividi e contusioni per cadute nelle regioni rocciose, una sindrome commotiva per un incontro di lotta durante il ritrovo annuale dei carrozzoni, pustole da sfregamento sulla sella, perfino labbra gonfie e occhi neri per qualche rissa intorno ai fuochi di bivacco durante l’Assemblea degli Uomini. E nell’Artiglio di ghiaccio ero stato ferito tre volte — due ferite di shrapnel di mine che avevano ucciso miei commilitoni e una ferita di laser da un cecchino a lungo raggio — e l’ultima era stata abbastanza grave da far venire un prete che quasi pretese accettassi il crucimorfo prima che fosse troppo tardi.
Ma non avevo mai provato un dolore come quello.
Gemendo, ansimando, mentre i bene educati abitanti si ritraevano da quella apparizione caduta a terra ed erano costretti a notare la presenza di uno straniero, alzai il polso e chiesi al comlog di dirmi che cosa mi accadeva. Il comlog non rispose. Fra ondate di dolore insopportabile, ripetei la richiesta. Nessuna risposta. Allora ricordai che avevo messo il maledetto aggeggio nel modo "bravo bambino" e annullai il comando.
"Posso attivare la funzione biosensoria latente, signor Endymion?" disse quell’idiota di IA.
Non sapevo che l’aggeggio avesse una funzione biosensoria, latente o attiva. Risposi con uno sgarbato borbottio d’assenso e mi piegai in due, in posizione fetale. Mi sentivo come se qualcuno mi avesse pugnalato al centro della schiena e rivoltasse nella ferita una lama uncinata. Il dolore mi percorse come corrente in un fil di ferro arroventato. Vomitai nella polvere. Una donna molto bella, in abito di un bianco abbagliante, arretrò ancora di un passo e alzò il sandalo bianco.
«Cos’è?» ansimai di nuovo, in uno dei brevissimi intervalli tra una fitta e l’altra. «Cosa mi succede?» Mi tastai la schiena, cercando sangue o una ferita. Mi aspettavo una freccia o una lancia, ma non trovai niente.
"Sta per entrare in stato di shock, signor Endymion" disse quel lobotomizzato pezzetto di IA della nave del console. "Pressione sanguigna, resistenza della pelle, battito cardiaco e conteggio di atropina confermano questa diagnosi."
«Perché?» Trascinai la parola in un lungo gemito, mentre il dolore mi rotolava dalla schiena in tutto il corpo. Vomitai di nuovo. Non avevo niente nello stomaco, ma continuai a vomitare. Gli abitanti del villaggio, nei loro vestiti dai vivaci colori, si tennero a distanza: non formarono una folla di curiosi, non si mostrarono tanto maleducati da fissarmi e mormorare, ma evidentemente esitarono a proseguire per i fatti loro.
«Cosa non va?» ansimai di nuovo, cercando di bisbigliare. «Cosa potrebbe provocarmi questo dolore?»
"Colpo d’arma da fuoco" rispose la vocina metallica. "Pugnalata. Lancia, coltello, freccia, dardo. Colpo di arma a energia. Laser, stiletto omega, pulsolama. Colpo concentrato di fléchettes. Forse un ago lungo e sottile che trapassi rene superiore, fegato e milza."
Torcendomi dal male, mi tastai di nuovo la schiena, tirai via il fodero col coltello e lo gettai lontano. Al tatto, giubbotto e camicia non parevano bruciati o lacerati. Nessun oggetto acuminato mi sporgeva dalla carne.
Il dolore mi bruciò di nuovo per tutto il corpo e gemetti a voce alta. Non l’avevo fatto quando il cecchino mi aveva colpito sull’Artiglio di ghiaccio e neppure quando l’ibrido di zio Vanya mi aveva rotto il piede.
Trovai difficile formare pensieri coerenti, ma la mia mente andava in questa direzione: "I nativi di Vitus-Gray-Balianus B… chissà come… poteri mentali… veleno… l’acqua… raggi invisibili… punizione… per…".
Abbandonai il tentativo di formare un pensiero coerente e gemetti di nuovo. Una persona in gonna o toga azzurro vivo e sandali pulitissimi, unghie dei piedi smaltate di blu, mi si avvicinò.
«Mi scusi, signore» disse una voce nell’inglese della vecchia Rete, distorto da una curiosa cadenza. «Si trova forse in difficoltà?»
«Aaarrgghhhggghuhh» risposi, tra altri conati di vomito.
«Posso allora esserle di aiuto?» domandò la stessa voce da sopra la toga azzurra.
«Oh… ahhrrgghah… nnnrrehhakk» dissi e quasi svenni per l’atroce dolore. Puntini neri mi danzarono davanti agli occhi, tanto che non vidi più i sandali e le unghie blu; ma la terribile sofferenza rimase, senza concedermi la via di fuga nell’incoscienza.
Vesti e toghe frusciarono intorno a me. Sentii profumi di colonia, di sapone… mani robuste sulle mie braccia, gambe, fianchi. Il tentativo di sollevarmi produsse un solo effetto: il ferro arroventato mi lacerò la schiena e mi si conficcò alla base del cranio.
7
Il Grande Inquisitore ricevette l’ordine di presenziare con il suo aiutante a un’udienza papale, alle 08.00, ora del Vaticano. Alle 07.52 il suo VEM nero giunse al punto di controllo dell’ingresso agli appartamenti papali di via del Belvedere. L’Inquisitore e il suo aiutante, padre Farrell, superarono i portali rivelatori e i sensori manuali, prima al punto di controllo delle guardie svizzere, poi alla stazione delle guardie palatine e infine al posto delle guardie nobili.