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Seguì un momento di silenzio. Il padre capitano de Soya stava per aprire bocca, per far giungere al sodo la confessione, quando nel buio il sergente Gregorius riprese a mormorare, dall’altra parte della grata che li separava.

«Chiedo scusa, padre, so benissimo che lo sa pure lei. Solo… è difficile… comunque, questa era la parte brutta, padre. Ormai quasi tutti gli Ouster non modificati, non adattati allo spazio, erano morti o moribondi. Per la decompressione o le scariche di energia o le granate. Non abbiamo usato i raggi della morte in dotazione. Né io né Kluge abbiamo dato ai ragazzi l’ordine di non usarli… ma nessuno di noi li ha usati, ecco.»

Si interruppe per un istante. «Gli Ouster adattati» riprese «divennero angeli, con il corpo luccicante per l’accensione dei campi di forza personali. Naturalmente là dentro non potevano spalancare le ali, ma tanto non ne avrebbero ricavato alcun vantaggio, anche se avessero potuto aprirle in tutta la loro estensione, non c’era vento solare e anche se ci fosse stato, un decimo di g era eccessivo per loro, ma divennero angeli ugualmente. Alcuni cercarono di usare le ali come arma contro di noi.»

Emise un suono rauco che forse era la parodia di una risatina. «Avevamo campi classe quattro, padre, e loro ci colpivano con ali sottili come ragnatela… Comunque, li bruciammo, mandammo fuori tre ragazzi per squadra, con gli esemplari impacchettati, e Kluge e io portammo i due ragazzi rimasti a ripulire le caverne, come ordinato…»

De Soya attese. Fra meno di un minuto avrebbe dovuto porre fine alla confessione.

«Sapevamo che quello era un asteroide incubatrice, padre. Sapevamo, lo sanno tutti, che gli Ouster, anche quelli che hanno liberato le macchine nelle proprie cellule e nel proprio sangue, rinunciando all’aspetto umano, ancora non hanno imparato come ottenere che le loro femmine mettano al mondo figli in ambiente a gravità zero e in presenza di radiazioni dure, padre. Sapevamo che era un asteroide incubatrice, quando siamo scesi su quel maledetto pezzo di roccia… chiedo scusa, padre…»

De Soya rimase in silenzio.

«Ma anche così, padre… quelle caverne erano come case… letti e stanzini, televisori e cucine… cose che non siamo abituati a pensare che gli Ouster abbiano. Ma quasi tutte quelle grotte erano…»

«Asili nido» disse il padre capitano de Soya.

«Sissignore. Asili nido. Piene di culle con neonati… non mostri Ouster, padre, non quelle pallide e luccicanti creature contro cui combattiamo, non quei maledetti luciferi con ali larghe cento chilometri per catturare la luce del sole… solo… bambini. A centinaia, padre. A migliaia. Caverna dopo caverna. Quasi tutte le stanze erano già state depressurizzate e i piccoli erano già morti nella culla. Alcuni corpicini erano stati spazzati via nella fuoruscita dell’aria, ma quasi tutti erano ben fissati. Alcune camere erano ancora a tenuta d’aria, però, padre. Ci aprimmo la strada facendole saltare. Le madri… donne in vestaglia… donne gravide con capelli sciolti che svolazzavano nel decimo di gravità… ci hanno assalito con le unghie e con i denti, padre. Le abbiamo lasciate perdere, finché il vento di tempesta le ha soffiate fuori e la ha fatte morire per soffocamento, ma alcuni neonati… decine e decine, padre… erano in quelle piccole scatole di plastica per la respirazione…»

«Incubatrici» disse il padre capitano de Soya.

«Sì» mormorò il sergente Gregorius, con voce alla fine stanca. «E abbiamo domandato via radio che cosa volevano che ne facessimo. Di tutte le decine e decine di neonati Ouster nelle incubatrici. E il comandante Barnes-Avne ci ha trasmesso…»

«Di procedere» mormorò il padre capitano de Soya.

«Sì, Padre. Così noi…»

«Avete eseguito gli ordini, sergente.»

«Così noi abbiamo usato le ultime granate in quegli asili nido, padre. E quando abbiamo terminato le granate al plasma, abbiamo usato le scariche di energia su quelle incubatrici. Stanza dopo stanza, caverna dopo caverna. La plastica si fondeva intorno ai neonati, li ricopriva. Le coperte prendevano fuoco. Le scatole erano alimentate a ossigeno puro, padre, perché molte esplosero come granate… abbiamo dovuto attivare i campi personali, padre, e anche così… ho impiegato due ore a ripulire la corazza da combattimento… ma gran parte delle incubatrici non è esplosa, padre, si è limitata a prendere fuoco come rametti secchi, a bruciare come torcia, tutto bruciava come un piccolo forno. E ormai nelle stanze e nelle caverne c’era il vuoto, ma le scatole… le piccole incubatrici… avevano ancora aria mentre bruciavano… e abbiamo spento gli auricolari esterni, padre. Tutti noi. Ma non so come, potevamo ancora udire i pianti e gli strilli attraverso il campo di contenimento e l’elmetto. Li odo ancora adesso, padre…»

«Sergente» disse il padre capitano de Soya, con voce dura e piatta, in tono di comando.

«Sì, signore?»

«Eseguivate ordini, sergente. Tutti noi eseguivamo ordini. Sua Santità ha da tempo decretato che gli Ouster hanno ceduto la loro natura umana ai nanocongegni rilasciati nel flusso sanguigno, ai cambiamenti apportati ai cromosomi…»

«Ma gli strilli, padre…»

«Sergente! Il concilio vaticano e il Santo Padre hanno decretato che questa crociata è necessaria, se vogliamo salvare dalla minaccia Ouster la famiglia umana. Hai ricevuto degli ordini. Hai ubbidito agli ordini. Siamo soldati.»

«Sì, signore» mormorò nel buio il sergente Gregorius.

«Ormai non abbiamo tempo, sergente. Ne riparleremo in altra occasione. Per ora, ti darò una penitenza, non perché sei un soldato e hai eseguito gli ordini, ma perché hai dubitato di quegli ordini. Cinquanta Ave Maria, sergente, e cento Pater Noster. E voglio che tu preghi per questo, che preghi intensamente per capire.»

«Sì, padre.»

«Ora recita un sincero atto di dolore… in fretta…»

Quando cominciò a udire dalla grata il mormorio della preghiera, il padre capitano de Soya alzò la mano nella benedizione. «Ego te absolvo…»

Otto minuti più tardi, il padre capitano e il suo equipaggio erano distesi nelle cuccette antigravità/culle di risurrezione, mentre il motore Gideon della Raffaele si accendeva e li portava istantaneamente al sistema bersaglio Mammone, per mezzo di una terribile morte e di una lenta, dolorosa risurrezione.

Il Grande Inquisitore era morto ed era andato all’inferno.

Si trattava solo della sua seconda morte con risurrezione e lui non aveva gradito nessuna delle due esperienze. Inoltre, Marte era davvero un inferno.

Il cardinale John Domenico Mustafa e il suo contingente di ventuno funzionari e agenti di sicurezza del Sant’Uffizio, compreso l’indispensabile aiutante padre Farrell, avevano raggiunto il sistema della Vecchia Terra nella nuova nave classe Arcangelo Jibril e dopo la risurrezione avevano ricevuto un generoso periodo di quattro giorni per riprendersi fisicamente e mentalmente, prima d’iniziare il lavoro su Marte. Il Grande Inquisitore si era documentato sul pianeta rosso quanto bastava a formarsi una opinione incrollabile: Marte era l’inferno.

«In realtà, eccellenza» commentò padre Farrell, la prima volta che il Grande Inquisitore gli disse d’essersi convinto che Marte era l’inferno «sarebbe più indicato uno degli altri pianeti di questo sistema solare, Venere. Temperature elevatissime, pressione schiacciante, laghi di metallo liquido, raffiche di vento simili allo scarico dei razzi…»

«Sta’ zitto» replicò il Grande Inquisitore, con uno stanco gesto della mano.

Marte: il primo pianeta colonizzato dalla specie umana, malgrado il suo basso indice di 2,5 nella vecchia scala Solmev, il primo tentativo di terraforming e il primo fallimento; un pianeta trascurato, dopo la morte della Vecchia Terra nel buco nero, per vari motivi: la scoperta della propulsione Hawking, gli imperativi dell’Egira, il fatto che nessuno voleva vivere su quella rugginosa sfera di ghiaccio, mentre la galassia offriva un numero quasi infinito di pianeti più belli, più salubri, più autosufficienti.