Выбрать главу

"No, no. Quello è solo un pezzetto di edificio costruito dall’uomo, che sporge da quello che di sicuro è uno strapiombo roccioso. Oserei presumere che l’intero cosiddetto Tempio a mezz’aria si trovi sotto lo strapiombo. In quel punto la roccia non è verticale, si inclina di sessanta o ottanta metri verso l’esterno."

«Puoi fornire una veduta laterale? Così posso vedere il tempio?» "Potrei" disse la nave. "Dovrei cambiare posizione in un’orbita più settentrionale, così potrei usare il telescopio per guardare a sud oltre il picco Heng Shan e passare all’infrarosso per guardare attraverso la massa di nubi a ottomila metri che al momento si muove fra il picco e lo sperone della cresta dove è costruito il tempio. Dovrei anche…"

«Lascia perdere. Tieni sotto controllo radio la zona del tempio, no, diavolo, l’intera cresta, e vedi se Aenea ci aspetta.»

"Quale frequenza?" domandò la nave.

Aenea non aveva parlato di frequenze. Aveva solo accennato al fatto che un atterraggio vero e proprio era impossibile, ma che dovevamo scendere comunque al Hsuan-k’ung Ssu. Guardando quella parete verticale, anzi peggio che verticale, di neve e di ghiaccio, cominciai a capire che cosa avesse voluto dire.

«Trasmetti su qualsiasi frequenza comune avresti usato per chiamare una estensione comlog» dissi. «Se non c’è risposta, cambia tutte le frequenze di cui disponi. Potresti usare le frequenze che hai già intercettato poco fa.»

"Provenivano dal quadrante inferiore dell’emisfero occidentale" disse la nave, in tono paziente. "Non ho intercettato emanazioni di microonde in questo emisfero."

«Per favore, fai come ti ho detto.»

Restammo librati lì per un’ora a spazzare la cresta con trasmissioni a raggio compatto e poi a lanciare generici segnali radio verso tutti i picchi della zona, poi a inondare con brevi chiamate tutto l’emisfero. Non ci fu risposta.

«Possibile che esista davvero un pianeta abitato dove nessuno usa la radio?»

"Naturalmente" disse la nave. "Su Ixion è contro la legge locale e contro le consuetudini usare trasmissioni a microonde di qualsiasi genere. Su Nuova Terra c’era un gruppo che…"

«Va bene, va bene» la interruppi. Per la millesima volta mi domandai se ci fosse un modo di riprogrammare l’intelligenza autonoma della nave in modo che non fosse una simile rottura di palle. «Scendiamo.»

"In quale località? Ci sono estese zone abitate su quell’alto picco a est — la mia mappa lo indica come monte T’ai Shan — e un’altra città a sud, sulla cresta K’un Lun, che si chiama Hsi wang-mu mi pare, e altre abitazioni lungo la cresta Phari e a ovest di lì in una zona segnata come Koko Nor. Inoltre…"

«Scendiamo sul Tempio a mezz’aria» tagliai corto.

Per fortuna il campo magnetico del pianeta era più che sufficiente per i repulsori EM della nave, perciò attraversammo lentamente l’atmosfera, anziché scendere su una coda di fiamme di fusione. Uscii sulla loggia per ammirare lo spettacolo, anche se il pozzetto olografico o gli schermi nella camera da letto in cima alla nave sarebbero stati più pratici.

Parvero passare delle ore, ma in realtà, tempo qualche minuto, eravamo graziosamente librati a ottomila e passa metri, tra il fantastico picco del nord, l’Heng Shan, e la cresta che ospitava il Hsuan-k’ung Ssu. Mentre scendevamo, avevo visto il terminatore correre da est e secondo la nave qui adesso era tardo pomeriggio. Presi il binocolo, uscii sulla loggia e guardai. Vedevo chiaramente il tempio. Lo vedevo, ma non potevo crederci.

Quello che era parso un semplice gioco di luci e di ombre sotto le gigantesche, striate, sporgenti lastre di granito grigio, era una serie di costruzioni che si estendevano a est e a ovest per molte centinaia di metri. Notai subito l’influsso asiatico: edifici a forma di pagoda, con tetti a punta e cornicioni dal margine rivolto all’insù, le cui tegole dorate brillavano ai vividi raggi del sole; finestre rotonde e porte circolari nelle sezioni inferiori della sovrastruttura, di mattoni; ariosi portici di legno, con ringhiere riccamente intagliate; delicate colonne di legno dipinte del colore del sangue secco; striscioni rossi e gialli che ricadevano da grondaie, da ingressi, da ringhiere; complicati intagli sulle travi del tetto e sui merli delle torrette; ponti sospesi e scale festonate di, l’avrei appreso in seguito, mulini e bandierine di preghiera, che presentavano a Buddha una orazione ogni volta che una mano li girava o il vento le agitava.

Il tempio era ancora in costruzione. Vedevo legname grezzo portato sulle piattaforme più alte, figure umane scalpellare la parete della cresta, impalcature, rozze scalette a pioli, grossolani ponti che in pratica erano poco più di fibre vegetali intrecciate e corde da scalata per corrimano, figure in piedi che tiravano ceste vuote su per quelle scalette e quei ponti, altre figure chine che portavano giù su un largo lastrone ceste piene di pietre e le scaricavano quasi tutte nel vuoto. Eravamo abbastanza vicino e quindi vedevo che molte di quelle figure umane indossavano vesti dai colori vivaci, lunghe quasi alla caviglia, alcune svolazzavano nel gagliardo vento che colpiva la parete rocciosa, e che quelle vesti parevano pesanti e foderate per proteggere dal freddo. Più tardi avrei appreso che erano gli onnipresenti chuba e che potevano essere di lana di zigocapra, pesante e impermeabile, o di seta per le cerimonie o addirittura di cotone, che però era raro e molto ricercato.

Non mi fidavo tanto a mostrare ai locali la nostra nave, non volevo provocare il panico o un attacco con lance laser o chissà cosa, ma non avevo alternativa. Distavamo ancora parecchi chilometri e perciò saremmo stati al massimo un insolito luccichio di sole su metallo scuro librato contro il bianco sfondo del picco settentrionale. Mi ero augurato che ci ritenessero semplicemente uno dei tanti uccelli (dall’alto, la nave e io avevamo visto parecchi uccelli, molti dei quali avevano un’apertura alare di diversi metri) ma la mia speranza andò delusa: vidi alcuni operai del tempio abbandonare il lavoro e guardare nella nostra direzione, imitati poi da altri e da altri ancora. Nessuno fu preso dal panico. Non ci fu una corsa a cercare rifugio o ad armarsi (non c’erano armi in vista da nessuna parte) ma era chiaro che ci avevano scorti. Guardai due donne correre su per la serie ascendente di edifici del tempio, ponti sospesi, scalinate, ripide scale a pioli e la penultima impalcatura, fino alla piattaforma orientale, dove il lavoro pareva consistere nel taglio di fori nella parete rocciosa. Lassù c’era una sorta di baracca da cantiere edile: una delle donne scomparve all’interno e ne uscì quasi subito in compagnia di parecchie persone di statura più alta, tutte in vesti lunghe e ampie.

Col cuore che mi batteva forte, aumentai l’ingrandimento del binocolo: dalla baracca uscivano volute di fumo e non potevo dire con certezza se la figura più alta fosse Aenea. Ma tra i veli di fumo turbinante colsi una rapida visione di capelli biondo castano, non tanto lunghi da sfiorare le spalle, e per un momento abbassai il binocolo e mi limitai a fissare la lontana parete, sorridendo come un idiota.

"Fanno segnalazioni" mi avvertì la nave.

Alzai di nuovo il binocolo. Un’altra persona, una donna penso, ma con capelli molto più scuri, agitava due bandierine da segnalazione.

"È un antico codice di segnali" disse la nave. "Si chiama Morse. Le prime parole sono…"

«Silenzio» intimai. Nella Guardia nazionale insegnavano il codice Morse e in una circostanza me n’ero servito sull’Artiglio di ghiaccio, quando avevo usato due pezzi di benda insanguinata per chiamare gli skimmer ambulanza.

VAI… ALLA… FORRA… DIECI… CHILOMETRI… A… NORDEST.

RESTA… LÌ.

ASPETTA… ISTRUZIONI.

«Ricevuto, Nave?» domandai.

"Sì." Il tono della nave pareva sempre freddo, se mi ero rivolto a lei con scortesia.

«Allora andiamo. Mi pare di vedere una forra, circa dieci chilometri a nordest. Manteniamoci il più lontano possibile e arriviamo da est. Non credo che dal tempio riusciranno a vederci e da quella parte non scorgo edifici lungo la parete dello strapiombo.»