«Da quattro anni circa, Raul.»
«Sei originaria di questo pianeta?»
Rachel sorrise di nuovo, accettando con pazienza l’interrogatorio. «No. Quando incontrerai i Dugpa e gli altri, vedrai che non sono nativa di T’ien Shan. In questa zona i ceppi prevalenti della popolazione sono cinese, tibetano, centroasiatico.»
«Da dove provieni?» domandai seccamente, suonando scortese alle mie stesse orecchie.
«Sono nata sul mondo di Barnard» rispose Rachel. «Un arretrato pianeta agricolo. Campi di granturco, boschi, lunghe serate noiose, alcune buone università, ma poco d’altro.»
«Ne ho già sentito parlare.» Ero ancora più insospettito. Le "buone università", il fiore all’occhiello del mondo di Barnard durante l’Egemonia, erano state da tempo convertite in accademie e seminari cristiani. All’improvviso provai il forte desiderio di vedere il petto nudo di quella giovane donna, per scoprire se c’era il crucimorfo voglio dire. Sarebbe stato troppo facile per me mandare via la nave e cadere in una trappola della Pax. «Dove hai conosciuto Aenea? Qui?»
«No, non qui. Su Amritsar.»
«Amritsar? Mai sentito nominare.»
«Non c’è niente di strano. Amritsar è un pianeta classificato ai livelli più bassi della scala di Solmev. Si trova nell’estrema Periferia. Fu colonizzato solo un secolo fa, profughi di una guerra civile su Parvati. Alcune migliaia di Sikh e alcune migliaia di Sufi vi ricavano faticosamente di che vivere. Aenea fu assunta per progettare un centro comunitario nel deserto e io andai con lei per fare i rilevamenti e tenere in riga la manodopera. Da allora sono sempre stata con lei.»
Annuii, ma esitavo ancora. Provavo una sensazione che non era vero e proprio disappunto, che si gonfiava come collera ma non era altrettanto chiara, che confinava con la gelosia. Ma questo era assurdo.
«A. Bettik?» All’improvviso fui assalito dal presentimento che l’androide fosse morto negli scorsi cinque anni. «È…»
«È partito ieri per il nostro viaggio quindicinale al mercato Phari a fare provviste» disse Rachel. Mi toccò il braccio. «A. Bettik sta benissimo. Dovrebbe essere di ritorno stasera, al levarsi della luna. Su, vai a prendere la tua roba. Ordina alla nave di nascondersi sulla terza luna. Preferirai di sicuro ascoltare da Aenea tutta la storia.»
Andò a finire che dalla nave presi poco più di un cambio di vestiti, un buon paio di stivali, il piccolo binocolo, un coltello con fodero, le dermotute, i riciclo-respiratori e un diskey-diario/ricetrasmittente palmare. Cacciai tutto in un sacco da montagna, scesi la scaletta e dal prato dissi alla nave che cosa doveva fare. A furia di antropomorfizzare la nave, mi aspettai che mettesse il broncio all’idea di tornare in modo ibernazione, in una luna priva d’aria stavolta. Ma la nave confermò d’avere ricevuto l’ordine, mi suggerì di fare un controllo quotidiano via radio per assicurarmi che il trasmettitore funzionasse e poi se ne andò, rimpicciolì, divenne un puntino e scomparve come un pallone frenato al quale avessero tagliato il cavo.
Rachel mi diede un chuba di lana da portare sopra il giubbotto termico. Notai l’imbracatura di nylon che portava sopra giacca e calzoni, gli attrezzi da scalata che pendevano dalle cinghie e chiesi spiegazioni.
«Aenea ha un’imbracatura pronta per te, su al tempio» disse Rachel, con un acciottolio di attrezzi nella reticella. «Questa è la più avanzata tecnologia del pianeta. I fabbri a Potala chiedono e ottengono l’equivalente di un riscatto da re per questa roba: ramponi, carrucole per i cavi, piccozze pieghevoli e martelli da ghiaccio, zeppe, staffe, moschettoni, grappette, chiodi e quant’altro ti viene in mente.»
«Ne avrò bisogno?» domandai, dubbioso. Nella Guardia nazionale avevo appreso alcune tecniche di base per scalare i ghiacciai (calarsi a corda doppia, sfruttare i crepacci, questo genere di cose) e quando lavoravo con Avrol Hume, nel Becco, avevo fatto alcune arrampicate in cordata nelle cave di pietra, ma non ero sicuro di cavarmela nella scalata di vere montagne. Non mi piacevano le altezze.
«Ne avrai bisogno, ma ti abituerai in fretta» mi garantì Rachel e si avviò, saltando sulle pietre per attraversare il corso d’acqua e poi risalendo a passo svelto, con leggerezza, il sentiero che portava all’orlo dello strapiombo. Gli attrezzi nell’imbracatura tintinnavano piano, come campanelle d’acciaio o campanacci intorno al collo di capre di montagna.
La marcia di dieci chilometri a sud lungo la parete a picco fu abbastanza facile, una volta che mi abituai alla stretta cornice, col vertiginoso precipizio alla nostra destra, il vivido riflesso di quella incredibile montagna da nord e dal ribollire di nubi dal basso, e l’inebriante impulso di energia dell’aria ricca di ossigeno.
«Sì» disse Rachel, quando accennai all’aria «l’atmosfera ricca di ossigeno sarebbe un guaio, se ci fossero foreste o savane facilmente infiammabili. Dovresti vedere le tempeste di fulmini durante il monsone. Ma la foresta bonsai giù nella forra e le foreste di felci sul lato piovoso di Phari sono in pratica tutto ciò che abbiamo in termini di materiali combustibili. E il legno bonsai che usiamo nelle costruzioni è quasi troppo denso per ardere.»
Per un poco camminammo in fila e in silenzio. Concentravo l’attenzione sulla cornice. Avevamo appena superato uno stretto angolo che mi obbligò a chinare la testa per non urtare la sporgenza rocciosa, quando la cornice si allargò, la visuale si aprì, ed ecco il Hsuan-k’ung Ssu, il Tempio a mezz’aria.
Anche da quella distanza, un po’ più in basso e di lato, il tempio pareva magicamente sospeso nell’aria, sul vuoto. Alcuni edifici, fra i più bassi e più antichi, avevano basi di pietra o di mattoni, ma quasi tutti gli altri erano costruiti sul vuoto. Quegli edifici in stile pagoda erano riparati dalla grande sporgenza rocciosa una ottantina di metri sopra gli edifici principali, ma scale a pioli e piattaforme zigzagavano verso l’alto fin quasi a toccare la faccia inferiore della sporgenza.
Ci trovammo fra la gente. I variopinti chuba e le onnipresenti imbracature da scalata non erano qui il solo comune denominatore: i visi che mi scrutavano con educata curiosità per la maggior parte parevano di ceppo asiatico della Vecchia Terra; le persone erano relativamente basse di statura, per un pianeta di gravità quasi standard; facevano un cenno di saluto e si scostavano rispettosamente davanti a Rachel che mi guidava tra la folla, su per le scalette, lungo corridoi interni profumati di incenso e di legno di sandalo, sotto verande e su ponti sospesi e scalinate di squisita fattura. In breve ci trovammo nei piani superiori del tempio, dove la costruzione procedeva a passo spedito. Le figurette viste prima col binocolo adesso erano persone viventi che grugnivano sotto pesanti ceste di pietre, individui che puzzavano di sudore e di lavoro onesto. La silenziosa efficienza che avevo osservato dalla loggia della nave ora divenne una rumorosa mistura di martellate, del sonoro ticchettio di scalpelli, dell’eco di picconi, del frastuono di operai che vociavano e facevano gesti nel controllato caos comune a ogni cantiere.
Dopo varie scalinate e tre lunghe scale a pioli che arrivavano alla piattaforma più alta, mi fermai a prendere fiato prima di affrontare l’ultima scaletta. Aria ricca di ossigeno o no, quella salita era una dura fatica. Notai che Rachel mi guardava con l’equanimità che potrebbe essere facilmente scambiata per indifferenza.
Alzai gli occhi e vidi una giovane donna scavalcare il bordo della piattaforma più alta e scendere con grazia la scaletta. Per un brevissimo istante mi sentii il cuore balzare in gola — Aenea! — ma poi vidi come la donna si muoveva, vidi i capelli corti sulla nuca e seppi che non era la mia amica.
Mi scostai con Rachel dalla base della scaletta, mentre la donna saltava gli ultimi pioli. Era grossa e solida, alta come me, con lineamenti forti e occhi di un viola sorprendente. Pareva sui cinquanta standard, era molto abbronzata e in ottime condizioni fisiche; dalle piccole rughe chiare agli angoli degli occhi e della bocca si sarebbe detto che anche a lei piaceva ridere spesso.
«Raul Endymion» disse, porgendomi la mano «sono Theo Bernard. Aiuto a costruire cose.»