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Gli esseri umani possedevano la tecnologia per dare la caccia a quei killer bioadattati e ridurli all’estinzione in un anno o meno, ma i residenti del pianeta avevano scelto una via diversa: i nomadi avrebbero corso i propri rischi, alla pari con i predatori, proteggendo i grandi branchi di cavalli finché l’erba non avesse smesso di crescere e l’acqua di scorrere, mentre gli stanziali di città avrebbero costruito una muraglia, una singola muraglia alla fine lunga più di cinquemila chilometri che separasse le regioni più selvagge delle terre alte dalle savane popolate di cavalli e dalle foreste di cicladi in evoluzione a sud. E la muraglia doveva essere qualcosa di più di una muraglia, doveva diventare la grande città lineare di Groombridge Dyson D, alta trenta metri come minimo, con bastioni risplendenti di moschee e di minareti, con il camminamento superiore tanto largo da permettere almeno il passaggio di tre cocchi quasi a contatto di ruota.

I coloni erano troppo pochi e troppo impegnati in altri progetti per lavorare a tempo pieno alla muraglia, ma avevano programmato dei robot e ricuperato gli androidi nelle cripte delle navi seminatrici, m modo che terminassero il lavoro. Aenea e i suoi amici avevano preso parte a quel progetto, lavorando per sei mesi standard, mentre la muraglia prendeva forma e iniziava l’implacabile marcia lungo la base delle terre alte e il limitare delle praterie.

«A. Bettik trovò lì due dei suoi fratelli» disse piano Aenea.

«Oddio» mormorai. Me n’ero quasi dimenticato. Alcuni anni prima, su Sol Draconis Septem, seduti davanti al tepore di un termocubo nello studio tappezzato di libri di padre Glauco, in un grattacielo a sua volta imprigionato nel ghiacciaio eterno dell’atmosfera congelata del pianeta, A. Bettik aveva accennato a una delle ragioni per cui partecipava a quell’odissea con la bambina Aenea e con me: si augurava, contro ogni logica, di trovare i suoi quattro consanguinei, tre fratelli e una sorella. Erano stati separati dopo il periodo di addestramento, quando erano ancora bambini, se si può usare il termine "bambini" per indicare i primi anni di vita accelerata degli androidi.

«Così li ha trovati!» esclamai, stupito.

«Ne ha trovati due. Uno degli altri maschi del suo nido d’infanzia, A. Antibbe, e sua sorella, A. Darria.»

«Gli somigliavano?» domandai. Nella città abbandonata di Endymion, il vecchio poeta si serviva di androidi, ma io non avevo fatto molta attenzione a nessuno di loro, A. Bettik escluso: in quel momento troppe cose accadevano troppo in fretta.

«Molto» rispose Aenea. «Ma erano anche molto diversi. Forse A. Bettik te ne parlerà.»

Riprese il racconto. Dopo sei mesi standard di lavoro alla città-muraglia, avevano dovuto andare via da Groombridge Dyson D.

«La Pax?»

«La Commissione per la giustizia e la pace, a essere precisi. Non volevamo andarcene, ma non avevamo scelta.»

«Cos’è la Commissione per la giustizia e la pace?» Qualcosa, nel modo come Aenea aveva pronunciato le parole, mi aveva fatto rizzare i peli delle braccia.

«Te lo spiegherò più avanti.»

«D’accordo. Spiegami però un’altra cosa adesso.»

Aenea annuì e attese.

«Hai detto di avere trascorso cinque mesi standard su Ixion. Tre mesi su Patto-Maui, sei mesi su Vettore Rinascimento, tre mesi su Patawpha, quattro su Amritsar, circa sei su… come si chiama? Groombridge Dyson D?»

Aenea annuì.

«E sei qui da circa un anno standard, hai detto?»

«Sì.»

«In totale sono trentanove mesi standard. Tre anni e tre mesi.»

Aenea rimase in silenzio. Increspò leggermente gli angoli della bocca, ma capii che non stava per sorridere, pareva piuttosto che volesse evitare di piangere. Alla fine disse: «Sei sempre stato bravo in matematica, Raul».

«Il mio viaggio fin qui ha richiesto cinque anni di debito temporale» continuai piano. «Per te sono quindi circa sessanta mesi standard, ma hai parlato solo di trentanove. Come hai trascorso i ventuno che mancano, ragazzina?»

Vidi le lacrime nei suoi occhi, gli angoli della bocca contrarsi lievemente. Ma Aenea cercò di parlare in tono leggero. «Per me sono stati sessantadue mesi, una settimana e sei giorni» disse. «Cinque anni, due mesi e un giorno di debito temporale, circa quattro giorni per accelerare e decelerare, otto giorni di tempo di viaggio. Hai dimenticato il tempo di viaggio.»

«D’accordo, ragazzina» dissi, vedendo crescere in lei l’emozione: le tremavano le mani. «Vuoi parlare dei mesi mancanti? quanti erano?»

«Ventitré mesi, sette giorni e sei ore» scherzò Aenea.

"Quasi due anni standard" pensai. "E non vuole raccontarmi cosa le è accaduto in quel periodo." Non l’avevo mai vista esercitare un controllo così rigido su se stessa: era come se cercasse di tenersi fisicamente unita, lottando contro una terribile forza centrifuga.

«Ne parleremo più avanti» disse infine Aenea. Indicò dalla porta spalancata la parete dello strapiombo a ovest del tempio. «Guarda.»

Riuscivo appena a distinguere sulla stretta cornice alcune figure, bipedi e quadrupedi. Distavano ancora parecchi chilometri. Andai al sacco da montagna, ricuperai il binocolo e scrutai quelle figure.

«Gli animali da soma sono zigocapre» disse Aenea. «I portatori sono stati assunti al mercato Phari e vi torneranno stamattina. Vedi qualcuno che conosci?»

Ne conoscevo uno. Il viso azzurro nel cappuccio del chuba era lo stesso di cinque anni fa. Mi girai verso Aenea, ma lei aveva chiaramente terminato di parlare dei due anni mancanti. Allora lasciai che cambiasse di nuovo argomento.

Così Aenea cominciò a farmi domande e parlavamo ancora, quando giunse A. Bettik. Le donne, Rachel e Theo, si presentarono qualche minuto dopo l’androide. Un tatami, ripiegato, rivelò un braciere per cottura nel pavimento accanto alla parete aperta; Aenea e A. Bettik cucinarono la cena per tutti. Vennero altre persone e mi furono presentate: i capisquadra George Tsarong e Jigme Norbu; due sorelle che si occupavano di quasi tutto il lavoro d’intaglio delle ringhiere, Kuku e Kay Se; Gyalo Thondup, in veste di seta da cerimonia, e Jigme Tarin in divisa militare; il monaco insegnante Chim Din e il suo maestro Kempo Ngha Wang Tashi, abate del gompa al Tempio a mezz’aria; una monaca di nome Donka Nyapso; un agente di commercio di nome Tromo Trochi di Dhomu; Tsipon Shakabpa, sovrintendente ai lavori per conto del Dalai Lama; il famoso scalatore e aviatore Lhomo Dondrub, forse l’uomo più straordinario che avessi mai visto e (lo scoprii più tardi) uno dei pochi che bevessero birra o spezzassero pane con i Dugpa, i Drukpa o i Drungpa.

La cena consisteva di tsampa e di momo, orzo abbrustolito mescolato con tè al burro di zigocapra, che formava una pastella arrotolata in palline e mangiata insieme con altre palline di farina cotta a vapore contenenti funghi, lingua fredda di zigocapra, pancetta zuccherata e pezzetti di pera che (mi disse A. Bettik) provenivano dai leggendari giardini di Hsi wang-mu. Mentre venivano distribuite le ciotole, giunsero altri ospiti: Labsang Samten, fratello maggiore dell’attuale Dalai Lama (mi mormorò A. Bettik), al terzo anno di servizio in monastero qui al tempio; diversi Drungpa delle gole boscose, compreso il mastro carpentiere Changchi Kenchung dai lunghi mustacchi incerati; l’interprete Perri Samdup e Rimsi Kyipup, un giovane pensieroso e infelice, montatore di impalcature.

Non tutti i monaci che passarono di lì quella sera discendevano da coloni di origine cinese o tibetana della Vecchia Terra. A ridere e ad alzare con noi i loro boccali di birra c’erano gli indomiti montatori Haruyuki Otaki e Kenshiro Endo, i mastri artigiani di bambù Voytek Majer e Janusz Kurtyka, i mastri mattonai Kim Byung-Soon e Viki Groselj. Il sindaco di Jo-kung, la più vicina città sullo strapiombo, era presente: Charles Chi-kyap Kempo, che fungeva anche da camerlengo di tutti i sacerdoti di grado elevato del tempio ed era membro designato delle due Tsongdu, assemblee regionali degli anziani, e consigliere del Yik-Tshang, il "Nido delle lettere", il gruppo segreto di quattro persone che teneva d’occhio il progresso dei monaci e nominava tutti i sacerdoti. Charles Chi-kyap Kempo fu il primo del nostro gruppo a bere tanto da addormentarsi. Chim Din e diversi altri monaci lo tirarono lontano dal bordo della piattaforma e lo lasciarono a russare in un angolo.