Così mi hanno consentito di tenere i miei vestiti, il falso tappeto Hawking e il diskey-diario/ricetrasmittente palmare che avevo preso dalla nave quando ero sceso su T’ien Shan. La trasmittente è stata disattivata (comunque una trasmissione non poteva attraversare il guscio di energia della scatola di Schrödinger e poi non avevo nessuno da chiamare) ma la memoria del diario (l’avevano esaminata attentamente, durante il mio processo d’inquisizione) non era stata toccata. Fu su T’ien Shan che cominciai a prendere annotazioni quotidiane.
Erano queste le annotazioni che avevo richiamato sullo schermo del grafer, mentre mi trovavo nella scatola di Schrödinger; le avevo riviste, prima di scrivere la parte più personale di tutte, ed era stata l’immediatezza di quelle note, credo, a spingermi all’uso del presente. Tutti i miei ricordi di Aenea sono vividi, ma alcuni, richiamati da quei frettolosi appunti al termine di una lunga giornata di lavoro o di avventura su T’ien Shan, erano così vitali da farmi piangere per il rinnovato senso di perdita. Mentre scrivevo le parole, rivivevo quei momenti.
E alcune sue discussioni di gruppo erano registrate parola per parola sul diskey-diario. Le riascolto, nei miei ultimi giorni, solo per udire ancora una volta la sommessa voce di Aenea.
«Parlaci del TecnoNucleo» chiede uno dei monaci, durante l’ora di discussione, la notte dell’arrivo della Pax. «Per favore, parlaci del Nucleo.»
Aenea esita solo un istante, china leggermente la testa come per riordinare i pensieri.
«In un tempo che fu…» inizia. Comincia sempre così le sue lunghe spiegazioni.
«In un tempo che fu, più di mille anni standard fa, prima dell’Egira, prima del Grande Errore del ’38, le sole intelligenze autonome conosciute dall’uomo eravamo noi esseri umani. Pensavamo allora che, se l’uomo avesse progettato un’altra intelligenza, avrebbe realizzato un progetto gigantesco: una grande massa di silicio e di antichi congegni di amplificazione, commutazione e rilevamento detti transistor e chip e circuiti stampati, una macchina con moltissimi circuiti interconnessi, in altre parole una scimmiottatura, se mi consentite l’espressione, del cervello umano nella sua forma e funzione.
«Naturalmente l’evoluzione delle IA non seguì questa via. In un certo senso, le IA cominciarono furtivamente a esistere mentre noi esseri umani guardavamo dall’altra parte.
«Immaginate adesso com’era la Vecchia Terra, prima che l’uomo avesse colonie su altri pianeti. Niente motore Hawking. Niente volo spaziale. Tutte le nostre uova erano davvero in un solo paniere e quel paniere era l’amabile pianeta bianco e azzurro, la Vecchia Terra.
«Alla fine del XX secolo dell’era cristiana, quel piccolo pianeta aveva una rozza sfera dati. Telecomunicazioni planetarie di base si erano sviluppate in un plurisistema decentralizzato di vecchi computer a base silicea che non richiedevano organizzazione né gerarchia, che non richiedevano nient’altro che il comune protocollo di comunicazione. Fu allora inevitabile la creazione di una mente-alveare per trattare la memoria distribuita.
«I primi antenati diretti delle attuali personalità del Nucleo non erano progetti per creare l’intelligenza artificiale, ma tentativi connessi alla simulazione della vita artificiale. Nel 1940, il bisnonno del TecnoNucleo, un matematico, John von Neumann, aveva fatto tutte le prove di autoreplicazione artificiale. Appena i primi computer a base silicea divennero abbastanza piccoli perché gli individui ci giocassero, alcuni dilettanti curiosi cominciarono a praticare biologia sintetica nell’ambito dei cicli CPU di quelle macchine. L’ipervita — che si autoriproduceva, che immagazzinava dati, che interagiva, che metabolizzava, che si evolveva — nacque negli anni 1960. Nell’ultimo decennio di quel secolo fuggì dalle sacche di marea delle macchine individuali e si trasferì nell’embrionale sfera dati planetaria detta Internet o la rete.
«Le prime IA erano stupide come un grumo di terra. Ma forse una metafora migliore sarebbe: stupide come la prima vita cellulare che fu nella terra. Alcune delle prime ipercreature galleggianti nel caldo ambiente della sfera dati, anch’esso in evoluzione, erano organismi a 80 byte inseriti in un blocco di RAM in un computer virtuale, ossia un computer simulato da un computer. Uno dei primi esseri umani a liberare nell’oceano della sfera dati simili creature fu un certo Tom Ray: non era un esperto di IA né un programmatore di computer né un cyberpuke (che a quel tempo era definito hacker) ma un biologo, entomologo, botanico e appassionato di bird-watching, uno che aveva speso anni a raccogliere formiche nelle giungle per uno scienziato pre-Egira di nome E.O. Wilson. Osservando le formiche, Tom Ray si interessò all’evoluzione e si domandò se non sarebbe riuscito non solo a simulare l’evoluzione in uno dei primi computer, ma anche a crearvi una vera evoluzione. Nessuno dei cyberpuke con cui parlò era interessato all’idea, così Tom Ray imparò da solo a programmare computer. I cyberpuke dissero che evoluzioni e mutazioni di sequenze di codici accadevano di continuo nei computer: i classici bugs che rovinavano i programmi. Se si fossero evolute in qualcosa d’altro, dicevano, quelle sequenze di codici sarebbero state quasi sicuramente non funzionali e non vitali, come sono molte mutazioni, e si sarebbero limitate a rovinare le operazioni del software dei computer. Allora Tom Ray creò un computer virtuale, un computer simulato all’interno del suo vero computer, per le sue creazioni di sequenze di codici. E poi creò una vera creatura a sequenza di codice a 80 byte che si poteva riprodurre, morire ed evolversi nel suo computer-nel-computer.
«La 80 byte si copiò in altri 80 byte. Quelle creature-cellula proto-IA a 80 byte avrebbero rapidamente riempito il loro universo virtuale, come schiuma di stagno sopra schiuma di stagno in una paradisiaca Terra primigenia; ma Tom Ray diede a ogni 80 byte un indicatore di durata, in altre parole diede loro un’età e programmò un boia interno che chiamò Mietitore. Il Mietitore vagò nell’universo virtuale e mieté vecchie creature a 80 byte e mutanti non vitali.
«Ma l’evoluzione, com’è logico che sia, cercò di superare in intelligenza il Mietitore. Una creatura mutante a 79 byte dimostrò non solo di essere vitale, ma in breve si riprodusse più rapidamente e distanziò le 80 byte. Le ipervite, antenati delle nostre IA del Nucleo, erano appena nate, ma già ottimizzavano i propri genomi. Presto si sviluppò un organismo a 45 byte e quasi eliminò le precedenti forme di vita artificiale. Come loro creatore, Tom Ray trovò bizzarra la cosa. In 45 byte non era possibile includere codici sufficienti a consentire la riproduzione. Inoltre i 45 byte morivano con la scomparsa degli 80 byte. Tom Ray eseguì l’autopsia di una creatura a 45 byte.
«Risultò che tutti i 45 byte erano parassiti. Per copiare se stessi, prendevano in prestito dagli 80 byte l’indispensabile codice riproduttivo. I 79 byte, risultò, erano immuni ai parassiti 45 byte. Mentre gli 80 byte e i 45 byte si muovevano verso l’estinzione nella loro coevolutiva spirale decrescente, comparve un mutante dei 45 byte. Era un parassita a 51 byte, in grado di predare sul vitale 79 byte. E così andò.
«Espongo tutto questo perché è importante capire che fin dalla sua primissima comparsa, la vita e intelligenza artificiale creata dall’uomo era parassita. Anzi, più che parassita: iperparassita. Ogni nuova mutazione portava a parassiti che potevano predare su parassiti precedenti. Nel giro di qualche miliardo di generazioni, ossia cicli CPU, quella vita artificiale era divenuta iper-iper-iperparassita. Nel giro di qualche mese standard della sua creazione dell’ipervita, Tom Ray scoprì creature a 22 byte che prosperavano nel suo ambiente virtuale, creature così algoritmicamente efficienti che i programmatori umani, sfidati da Tom Ray, non riuscirono a creare niente che si avvicinasse a quelle più di una versione a 31 byte. Solo alcuni mesi dopo la loro creazione, le creature iperviventi avevano sviluppato una efficienza che i loro creatori non riuscivano a uguagliare!