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Stephen Baxter

Il secondo viaggio

(L’incognita tempo)

PROLOGO

La mattina di venerdì, dopo il mio ritorno dal futuro, mi destai a un’ora piuttosto tarda da un sonno profondo senza sogni.

Scostando le coperte, mi alzai dal letto. Osservai il sole, che come al solito avanzava lentamente nel cielo, rammentando come dalla prospettiva accelerata di un Viaggiatore nel Tempo pareva invece spostarsi a grandi balzi nel firmamento! Ormai mi sentivo nuovamente imprigionato nel lento fluire del tempo, come un insetto in una goccia d’ambra.

I consueti rumori mattutini di Richmond si affollavano fuori della mia finestra. Lo scalpiccio dei cavalli, il rumoreggiare delle ruote sull’acciottolato, lo sbattere degli sportelli. Un tram a vapore percorse goffamente Petersham Road eruttando fumo e faville, mentre le urla dei venditori ambulanti, simili alle strida dei gabbiani, riecheggiavano nell’aria. Poco a poco, i miei pensieri si allontanarono dalle strepitose avventure nel tempo per tornare alla realtà quotidiana: scorsi gli articoli della Pall Mall Gazette, studiai l’andamento del mercato azionario, e sperai che con la posta del mattino arrivasse l’ultimo numero dell’American Journal of Science, che avrebbe dovuto ospitare alcune mie riflessioni sulle scoperte di A. Michelson e E. Morley a proposito di certe peculiarità della luce, di cui la stessa rivista aveva riferito quattro anni prima, nel 1887… e via di questo passo!

I dettagli della vita quotidiana mi affollarono la mente, talché il ricordo della mia avventura nel futuro parve diventare una fantasia, o persino un’assurdità.

Ripensandovi, mi sembrò che l’intera esperienza avesse qualcosa di allucinatorio, una qualità quasi di sogno. Rammentavo la sensazione di precipitare, la vaghezza che tutto assumeva durante il viaggio nel tempo, e infine il mio tuffo nel mondo d’incubo dell’Anno del Signore 802.701. La presa dell’ordinario sull’immaginario è notevole. Mentre me ne stavo là, in pigiama, qualcosa dell’incertezza che alla fine mi aveva assalito la notte precedente ritornò, e cominciai a dubitare persino dell’esistenza della macchina del tempo, nonostante i ricordi limpidissimi dei due anni che avevo dedicato alla sua costruzione, per non parlare dei due decenni precedenti, durante i quali avevo elaborato la teoria del viaggio nel tempo sulla base delle anomalie osservate nel corso dei miei studi di fisica ottica.

Ripensando alla conversazione con i miei ospiti a cena la sera precedente (quelle poche ore mi sembravano di gran lunga più vivide, ormai, delle intere giornate che avevo trascorso nel futuro), rammentai le diverse reazioni suscitate dal mio racconto: al piacere con cui di solito veniva accolta una storia ben raccontata, si erano accompagnate sfumature di simpatia o di velata derisione, a seconda del temperamento individuale, nonché, come ben ricordavo, dallo scetticismo generale. Soltanto il buon amico che in queste pagine chiamerò lo Scrittore parve ascoltare il mio racconto stravagante con un certo grado di simpatia e di fiducia.

Mentre mi sgranchivo davanti alla finestra, i dubbi sui miei stessi ricordi subirono uno scossone. Il dolore alla schiena era reale, lancinante, come pure le fitte brucianti dei muscoli delle gambe e delle braccia, che erano stati sottoposti a duri sforzi sebbene appartenessero a un uomo non più giovane e fuori allenamento. Be’, pensai, se il tuo viaggio nel futuro è stato davvero un sogno, compresa la Notte Nera dello scontro con i Morlock nella foresta, da dove vengono questi dolori? Ti sei messo a fare capriole in giardino, in preda a un accesso di follia?

Poi vidi ammucchiati in maniera disordinata in un angolo della stanza gli indumenti logori e stracciati, ormai inutilizzabili, che avevo indossato durante il mio viaggio nel futuro. Notando che erano macchiati d’erba, strinati dal fuoco e con le tasche strappate, ricordai che Weena aveva usato queste ultime come vasi improvvisati, riempiendole con i fiori dai colori tenui che crescevano nel futuro. Mancavano le scarpe, naturalmente (e provai una strana fitta di rimpianto per le vecchie, comode scarpe da casa che avevo sconsideratamente indossato prima di partire per quel futuro ostile, e che in seguito avevo abbandonato a chissà quale destino); tuttavia là, sul tappeto, c’erano le calze, lacere, sporche, insanguinate.

Per qualche ragione, furono soprattutto le calze, quelle vecchie, ridicole calze stracciate, a convincermi, con la loro grezza esistenza, che non ero impazzito, e che la mia esperienza nel futuro non era stata un sogno.

Capii che avrei dovuto intraprendere un nuovo viaggio nel tempo, per dimostrare che quel futuro era reale quanto la Richmond del 1891. Solo così avrei persuaso la mia cerchia di amici e colleghi scienziati, dissipando inoltre le ultime tracce di incredulità che io stesso provavo.

Nel giungere a tale risoluzione, rividi all’improvviso il volto dolce e vacuo di Weena, come se si fosse trovata lì dinanzi a me. La mestizia mi straziò il cuore, insieme a una fitta di rimorso per la mia stessa impulsività. Weena, la giovane donna appartenente al popolo degli Eloi, mi aveva seguito sino al Palazzo di Porcellana Verde attraverso la foresta che nel lontano futuro aveva nuovamente ricoperto la valle del Tamigi, però in seguito si era smarrita nella confusione dell’incendio e dei truci assalti dei Morlock. Debbo riconoscere che sono sempre stato incline ad agire prima ancora di riflettere. Nella mia esistenza di scapolo questa tendenza non aveva mai messo a repentaglio la vita di nessuno, tranne la mia, finché nella mia avventatezza e nella mia impetuosità non avevo abbandonato la povera e fiduciosa Weena a una morte orribile nelle tenebre della Notte Nera dei Morlock.

Avevo le mani lorde di sangue, e non solo di quello dei Morlock, subumani lerci e degenerati. Decisi che era mio dovere rimediare in qualunque modo al trattamento indegno con cui avevo ricambiato la fiducia di Weena.

Era una decisione irrevocabile: le mie avventure, fisiche e intellettuali, non erano ancora concluse.

Chiesi alla signora Watchet di prepararmi il bagno, ed entrai nella vasca. Nonostante l’urgenza di agire, mi concessi il tempo di rimettere in sesto le mie povere ossa ammaccate. Esaminai con scrupolo le vesciche e i graffi che avevo ai piedi, nonché le lievi ustioni alle mani.

Dopo essermi rivestito rapidamente, consumai la colazione preparatami dalla signora Watchet. Divorai avidamente uova, funghi e pomodori, ma il bacon e le salsicce, salati e unti, mi suscitarono un lieve disgusto.

Non potei fare a meno di rammentare i Morlock, e le carni che li avevo visti consumare durante i loro pasti schifosi. Ricordai, inoltre, che le recenti esperienze non avevano sminuito il mio appetito nei confronti del montone, la sera precedente a cena, alla quale ero giunto però molto più affamato. Era mai possibile che stessero affiorando in me le conseguenze dello shock e dell’inquietudine suscitati dalle mie disavventure?

È mia abitudine, però, consumare una colazione abbondante, giacché sono persuaso che una buona dose di peptone nelle arterie all’inizio della giornata sia essenziale al buon funzionamento della vigorosa macchina umana. E la giornata che mi attendeva sarebbe stata la più ardua che avessi mai affrontato in vita mia. Di conseguenza, terminai la colazione senza badare alla nausea, masticando risolutamente le fette di bacon.

Poi mi cambiai, indossando un completo estivo semplice e pratico. Come credo di aver detto ai miei amici la sera prima, mi era parso evidente, durante il viaggio nel tempo, che l’inverno era stato bandito dall’anno 802.701 (anche se non avrei saputo dire se in conseguenza dell’evoluzione naturale, di una modificazione artificiale oppure di uno spostamento del sole), perciò nel futuro non avrei avuto bisogno di cappotti e sciarpe. Presi però un cappello, per proteggere la mia pallida fronte inglese dal sole del futuro, e infilai i miei stivali da passeggio più robusti.