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Munito di un piccolo zaino, iniziai a perlustrare la casa, frugando negli armadi e nei cassetti alla ricerca dell’equipaggiamento che ritenevo necessario per il mio secondo viaggio, allarmando non poco la povera, paziente signora Watchet, la quale, ne sono certo, era convinta ormai da tempo che la mia sanità mentale fosse svanita nelle nebbie della mitologia. Com’è tipico del mio comportamento, smaniavo di partire, eppure mi imposi di non essere così impetuoso com’ero stato la prima volta, allorché avevo viaggiato per ottomila secoli senz’altra protezione che un paio di scarpe da casa e un’unica scatola di fiammiferi.

Imbottii lo zaino di tutti i fiammiferi che riuscii a trovare in casa, anzi, spedii Hillyer dal tabaccaio ad acquistarne altre scatole. Feci provvista anche di canfora, di candele e, in ossequio a un impulso improvviso, di una matassa di spago robusto, nel caso che, trovandomi in difficoltà, fossi stato costretto a fabbricare candele. In realtà, sapevo ben poco in materia, ma nella luce intensa di quella mattina piena d’ottimismo, non dubitavo affatto della mia capacità d’improvvisare.

Presi disinfettante, unguenti, compresse di chinino, un rotolo di bende. Non possedevo fucili né pistole, ma dubito che me le sarei procurate, perché quando le munizioni sono finite, le armi da fuoco diventano inutili. Invece, m’infilai in tasca un coltello a serramanico.

Aggiunsi nello zaino anche un sacchetto di attrezzi: un cacciavite, chiavi di diverse misure, un seghetto a mano con lame di riserva, una quantità di viti, nonché alcune leve di nichel, di ottone e di quarzo. Non volevo di certo rimanere bloccato nel futuro per un guasto alla macchina del tempo causato dalla mancanza di un po’ d’ottone: anche se avevo progettato di costruirne una nuova, allorché mi era stata rubata dai Morlock nell’802.701, non avevo alcuna prova che in quel corrotto mondo futuro sarei riuscito a trovare i materiali per eventuali riparazioni, neppure per sostituire una semplice vite tranciata. I Morlock avevano conservato certe conoscenze tecniche, però non mi allettava affatto la prospettiva di dover trattare con quei pallidi vermi per procurarmi un paio di bulloni.

Recuperai la mia Kodak, munita di flash e caricata con un rullino da cento negativi. Ricordavo che mi era parsa maledettamente costosa (nientemeno che venticinque dollari) quando l’avevo acquistata a New York; tuttavia, se fossi tornato con qualche immagine del futuro, anche un semplice negativo da due pollici avrebbe superato il valore dei più grandi capolavori della storia dell’arte.

Infine, mi domandai se fossi pronto. Senza rivelare naturalmente dov’ero diretto, chiesi consiglio alla povera signora Watchet. Ebbene, dopo aver gettato un’occhiata nello zaino pieno, quella brava donna, onesta, semplice, affidabile, d’animo devoto e imperturbabile, inarcò con decisione un sopracciglio, si recò nella mia camera, e tornò con calze e maglieria intima di riserva, nonché con la mia pipa, gli accessori e il tabacco, prelevati dalla mensola del caminetto: in quel momento, provai l’impulso di baciarla.

Così, con il mio solito miscuglio di febbrile impazienza e superficiale intelligenza, e con una fiducia infinita nella buona volontà e nel buon senso altrui, mi sentii finalmente pronto per viaggiare di nuovo nel tempo.

Con lo zaino sotto un braccio e la Kodak sotto l’altro, mi recai al laboratorio, dove mi attendeva la macchina del tempo. Ma passando nella sala da fumo fui sorpreso di scoprire che avevo una visita: si trattava di uno degli ospiti della sera precedente, forse il mio amico più intimo, ossia lo Scrittore che ho già menzionato. Stava al centro della stanza, abbigliato con un completo sgraziato, la cravatta annodata nella maniera più rozza che si potesse immaginare, con le mani che ciondolavano goffamente lungo i fianchi.

In quel momento ricordai che, fra gli amici e i conoscenti che avevo convocato per ascoltare il primo resoconto della mia impresa, era stato proprio quel giovane serio e attento ad ascoltare con maggiore interesse, in un silenzio vibrante di partecipazione.

Per me era un piacere rivederlo, e gli ero grato del fatto che non mi avesse evitato come un eccentrico — una reazione normale dopo il mio comportamento della sera precedente — ma invece fosse tornato a farmi visita. Sorrisi e, avendo le mani occupate dallo zaino e dalla macchina fotografica, protesi un gomito, che lui afferrò e scosse solennemente: — Sono terribilmente occupato — spiegai — con quell’apparecchio là dentro.

Mentre lo Scrittore mi osservava, ebbi l’impressione di scorgere nei suoi occhi azzurri una disperata volontà di credere: — Allora non è uno scherzo? Viaggia davvero nel tempo?

— Sì, non c’è il minimo dubbio — risposi, sostenendo il più a lungo possibile il suo sguardo affinché si convincesse una volta per tutte.

Era basso, tarchiato, con la fronte ampia, le fedine a ciuffi, le orecchie sgraziate, il labbro inferiore sporgente. Era giovane, sui venticinque anni, credo, vale a dire una ventina più giovane di me, eppure i suoi capelli lisci mostravano già segni di calvizie. La sua andatura aveva qualcosa di elastico; dalla sua persona emanava una certa energia nervosa, come quella di un uccello, eppure il suo aspetto pareva malaticcio. Sapevo che soffriva di occasionali emorragie a seguito di un calcio nelle reni ricevuto durante una partita di pallone, quando lavorava come insegnante in qualche scuola privata dimenticata da Dio, in Galles. E quel giorno, i suoi occhi azzurri come al solito velati di stanchezza, brillavano d’intelligenza, nonché di sincera apprensione per la mia sorte.

In quel periodo, il mio amico teneva corsi per corrispondenza, però era un sognatore. Durante le nostre piacevoli riunioni conviviali del giovedì sera, a Richmond, esprimeva le sue riflessioni sul futuro e sul passato, e le sue ultime meditazioni sul significato delle empie e squallide teorie di Darwin, o su qualsiasi altro argomento.

Sognava la perfettibilità della razza umana: sì, era proprio il tipo che poteva desiderare con tutto il cuore che il mio racconto sui viaggi temporali fosse autentico.

Se l’ho definito Scrittore, suppongo che sia per un affetto di vecchia data, giacché, a quanto ne sapevo, aveva pubblicato soltanto qualche goffo saggio speculativo su riviste universitarie e simili. Tuttavia non dubitavo che la sua mente vivace gli avrebbe scavato una nicchia di qualche genere nel mondo delle lettere, senza contare che, più pertinentemente, lui stesso non ne dubitava.

Benché fossi ansioso di partire, indugiai brevemente. Forse lo Scrittore avrebbe potuto essere testimone del mio nuovo viaggio, anzi, mi chiesi in quel momento se non stesse già progettando di trascrivere le mie recenti avventure in qualche forma adatta alla pubblicazione.

Ebbene, in tal caso avrebbe avuto la mia benedizione.

— Mi occorre soltanto mezz’ora — dichiarai, calcolando che avrei potuto ritornare precisamente in quel tempo e in quel luogo semplicemente toccando le leve della mia macchina, a prescindere da quanto avrei scelto di restare nel futuro o nel passato. — So perché è qui, ed è terribilmente gentile da parte sua. Ecco… qui troverà qualche rivista. Se rimarrà a pranzo le dimostrerò nella maniera più completa, con tanto di prove materiali, che è possibile viaggiare nel tempo. E ora, se vuole scusarmi…

Lo Scrittore acconsentì. Lo salutai con un cenno del capo, poi, senza dire altro, proseguii nel corridoio sino al laboratorio.

Fu così che mi congedai dal mondo del 1891. Non sono mai stato uomo di affetti profondi, né incline agli addii cerimoniosi, ma se avessi immaginato che non avrei mai più rivisto lo Scrittore, o almeno, non in carne e ossa, credo che sarei stato più espansivo.

Entrai nel laboratorio. Era attrezzato come un’officina, con un tornio a vapore fissato al soffitto che azionava un certo numero di utensili mediante cinghie di cuoio. Sui banchi erano installati altri torni più piccoli, una punzonatrice, alcune presse, saldatrici ad arco all’acetilene, morse, e così via. Sopra un banco erano sparsi pezzi metallici e disegni, mentre avevo lasciato cadere sul pavimento, in mezzo alla polvere, gli scarti e i frutti ormai inutilizzabili del mio lavoro, giacché per natura non sono ordinato. Per esempio, mi trovai fra i piedi la leva di nichel che aveva ritardato il mio primo viaggio nel tempo: avevo scoperto, infatti, che era troppo corta di due centimetri e mezzo, perciò ero stato costretto a fabbricarne un’altra.