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Fui costretto ad attendere tre giorni prima che Nebogipfel fosse pronto a partire. Mi spiegò che occorreva aspettare che la Terra e la regione della Sfera in cui ci trovavamo assumessero la configurazione appropriata.

Intanto continuai a ripensare al viaggio che stavo per affrontare, ma senza particolare timore, perché anche se privo di sensi avevo compiuto quella traversata già una volta. Mentre mi interrogavo sul propellente usato dalla nave spaziale di Nebogipfel, rammentai l’assurdo cannone e il proiettile gigantesco che Verne aveva fatto sparare dai soci del Gun Club di Baltimora verso la luna. Ma bastava un semplice calcolo mentale per dimostrare che un’accelerazione sufficiente a vincere la gravità terrestre avrebbe anche spappolato i corpi dei viaggiatori — cioè Nebogipfel ed io — sulle pareti interne del veicolo come uno strato di marmellata di fragole.

Quale sistema avremmo usato, dunque?

Com’è noto lo spazio interplanetario è privo d’aria, quindi non avremmo potuto volare come uccelli fino alla Terra, perché essi confidano nella capacità delle ali di sfruttare la resistenza dell’aria: niente aria, niente spinta! Ipotizzai che la nave spaziale utilizzasse un tipo molto perfezionato di razzo, perché volando grazie alla spinta del propellente combusto, poteva funzionare nel vuoto dello spazio, a patto di trasportare l’ossigeno necessario.

Ma queste ipotesi erano basate sulla scienza del diciannovesimo secolo. Come potevo immaginare le risorse a disposizione nell’anno 657.208? Immaginai navi capaci di bordeggiare nella gravità solare come in un vento invisibile, oppure qualche forma di sfruttamento dei campi magnetici, o altro ancora.

Mi lanciai nelle più ardite speculazioni, finché Nebogipfel annunciò che per me era arrivato il momento di lasciare per sempre l’Interno.

Mentre scendevamo nell’oscurità, gettai la testa all’indietro per osservare la luce che si allontanava, e un attimo prima di mettermi gli occhiali giurai che quando i raggi del sole mi avessero di nuovo accarezzato il viso, mi sarei trovato nel mio secolo.

Mi aspettavo di essere condotto all’equivalente morlock di un porto, con grandi navi spaziali d’ebano ancorate lungo la parete della Sfera come transatlantici in porto.

Non trovai nulla di tutto ciò. Nebogipfel mi accompagnò per poche miglia sui nastri mobili del pavimento fino a una zona sgombra, che si distingueva dalle altre perché era priva di divisori e di Morlock. Al centro, sul pavimento stellato, era sistemata una cabina trasparente, simile a un montacarichi.

A un gesto della mia guida, entrai nella cabina. Nebogipfel mi seguì e la porta a diaframma si chiuse con un sibilo. La cabina aveva la forma di un parallelepipedo, ma con gli angoli e gli spigoli arrotondati. Conteneva soltanto alcune aste verticali disposte tutt’ intorno a intervalli regolari.

Con le dita pallide, Nebogipfel afferrò un’asta: — Meglio prepararsi. Al momento del lancio, vi sarà un brusco salto di gravità.

Benché pronunciate in tono pacato, le sue parole m’inquietarono. Con gli occhi protetti dalle lenti, Nebogipfel mi osservò con il solito sguardo insieme curioso e indagatore. Intanto, mi accorsi che rinserrava la presa.

D’improvviso, più rapidamente di quanto si possa dire a parole, il pavimento si aprì, e la cabina precipitò staccandosi dalla Sfera.

Con un grido, mi afferrai a un’asta, come un bimbo alla gamba della madre.

Alzando lo sguardo, vidi la superficie della Sfera trasformarsi in una immensa volta nera che nascondeva alla vista metà dell’universo. Al centro vidi il rettangolo più chiaro della porta da cui eravamo usciti, che ormai si era quasi richiusa e rimpiccioliva in lontananza. Era la prova che la cabina stava precipitando nello spazio. Non era difficile capire ciò che era successo: anche uno scolaretto avrebbe potuto ottenere il medesimo effetto facendo roteare una castagna d’India legata a una cordicella e mollando all’improvviso la presa. Ebbene, la “cordicella” che ci aveva trattenuti all’interno della Sfera, ossia il pavimento, si era staccata, scagliandoci nello spazio senza tante cerimonie.

A stento riuscii a sopportare la vista dello spettacolo che si aprì sotto di me: Nebogipfel e io eravamo risucchiati in un pozzo senza fondo che s’inabissava all’infinito in un oceano di stelle.

— Per l’amor di Dio, Nebogipfel… Cos’è successo? Qualche disastro, forse?

Il Morlock si librava in maniera sconcertante a pochi centimetri dal pavimento: infatti mentre la cabina precipitava nello spazio, all’interno noi galleggiavamo come piselli in una scatola per fiammiferi.

— Siamo stati scagliati via dalla Sfera. Gli effetti della sua rotazione… — mi informò Nebogipfel.

— Capisco, ma… Perché? Vuoi dire che precipiteremo dritti sulla Terra?

— In sostanza… sì — confermò il mio compagno.

A quel punto non ebbi la forza di fare altre domande, perché mi accorsi anch’io di galleggiare nella cabina come un pallone, una sensazione subito accompagnata da una forte nausea che soffocai a stento solo dopo alcuni minuti.

Alla fine, riacquistai parzialmente il controllo del mio corpo e chiesi a Nebogipfel di spiegarmi i principi su cui si basava il nostro volo fino alla Terra. A quel punto capii quanto fosse elegante ed economica la soluzione che i Morlock avevano escogitato per viaggiare tra la Sfera e i pianeti rimasti: avrei dovuto arrivarci da solo, invece di perdermi in assurde speculazioni su proiettili e razzi. Si trattava in fondo di un altro esempio della natura inumana dei Morlock. Invece che a bordo di un’enorme nave spaziale, come mi ero aspettato, stavo viaggiando dall’orbita di Venere verso la Terra chiuso di quella specie di bara.

Pochi fra i miei contemporanei erano davvero consapevoli che l’universo fosse costituito essenzialmente di vuoto, punteggiato da alcune sacche isolate di calore e di vita, e che dunque erano necessarie velocità enormi per percorrere in tempo utile le distanze interplanetarie. Ma la Sfera, all’equatore, si muoveva già a notevole velocità, perciò i Morlock non avevano bisogno di razzi né di cannoni. Semplicemente, facevano cadere le capsule dalla Sfera lasciando che la rotazione facesse il resto.

La nostra velocità era tale, mi spiegò Nebogipfel, che saremmo arrivati nei pressi della Terra in appena quarantasette ore.

Osservando la capsula, non vidi traccia di razzi né di altre forze motrici. Galleggiavo all’interno, sentendomi goffo e ingombrante. Vedevo la mia barba librarsi in una nube grigia davanti alla faccia e le falde della giacca sollevarsi attorno alle spalle.

— Ho capito i principi del lancio, ma… come viene guidata la capsula?

Dopo una breve esitazione, Nebogipfel rispose: — Non viene affatto guidata. Forse hai frainteso ciò che ti ho detto: la capsula non necessita di forza motrice, perché la velocità che la Sfera le imprime…

— Ho capito perfettamente — osservai agitato. — Ma se ci accorgessimo che, a causa di un errore di lancio, stiamo cadendo nella direzione sbagliata e rischiamo di mancare il bersaglio? Anche l’impercettibile errore di una frazione di grado, se proiettato su scala planetaria, potrebbe farci mancare la Terra di milioni di miglia. E in tal caso continueremmo a precipitare nel vuoto per l’eternità, cercando di spiegare la colpa dell’accaduto finché non avremo finito l’aria.

Il mio compagno parve confuso: — Non c’è stato nessun errore.

— Ma se accadesse — insistetti, — magari a causa di qualche difetto meccanico, come potremmo correggere la traiettoria della capsula?

Prima di rispondere, Nebogipfel meditò brevemente: — Non si verificano errori o difetti, quindi la capsula non ha bisogno di propulsione per correggere la traiettoria.

Incredulo, costrinsi Nebogipfel a ripetere più volte la spiegazione, prima di accettarla come veritiera. Ed era proprio così! Dopo il lancio, la capsula sfrecciava nello spazio interplanetario con l’ineluttabilità di un sasso o, se preferite, del proiettile sparato dal cannone lunare di Verne.