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Addossato alla parete della capsula, osservai il paesaggio buio della Terra, interrotto qua e là dal chiarore dei grandi pozzi di riscaldamento dei Morlock. Notai inoltre alcune enormi torri che sembravano spuntare dall’atmosfera. Nebogipfel mi spiegò che venivano usate per lanciare capsule dalla Terra alla Sfera.

Su di esse vidi muoversi dei puntolini di luce: capsule interplanetarie che trasportavano Morlock diretti alla Sfera. Mi resi conto che proprio per mezzo di una di quelle torri ero stato lanciato nello spazio, ancora tramortito, ed ero stato trasportato sulla Sfera. Le torri servivano a far salire le capsule oltre l’atmosfera, dopodiché con una serie di manovre di appaiamento simili a quelle che avevamo compiuto le scagliavano nello spazio.

In questo caso il lancio non riusciva a imprimere un’accelerazione uguale a quella provocata dalla rotazione della Sfera, perciò il viaggio di andata durava più a lungo di quello di ritorno. Ma nei pressi della Sfera, i campi magnetici agganciavano facilmente le capsule e le guidavano a un perfetto rendez-vous.

Infine, scivolammo nell’atmosfera terrestre. Quando per effetto dell’attrito la capsula si surriscaldò e sussultò, risvegliando dentro di me una sensazione di movimento da giorni sopita, ero saldamente aggrappato ai sostegni perché Nebogipfel mi aveva preavvisato.

Con la fiammata di una meteora, esaurimmo la velocità residua. Osservai con una certa inquietudine il paesaggio avvolto nell’oscurità che si stendeva sotto di noi durante la caduta. Mi parve di scorgere il nastro largo e sinuoso del Tamigi, e cominciai a domandarmi se davvero, dopo un viaggio tanto lungo, vi fosse il rischio di schiantarsi sulle rocce implacabili della Terra.

Poi…

Ho un ricordo confuso e parziale dell’ultima fase della nostra discesa. Vagamente intravidi un aeromobile simile a un immenso uccello, che scese dal cielo e in un attimo ci inghiottì nel suo ventre. Nel buio, sobbalzai, mentre l’aeromobile rallentava, quindi la discesa continuò con estrema delicatezza.

Quando rividi le stelle, non vi era traccia dell’aeromobile a forma d’uccello. La capsula era adagiata sul suolo arido e senza vita di Richmond Hill, a meno di cento metri dalla Sfinge Bianca.

21

A Richmond Hill

Quando Nebogipfel aprì la capsula, uscii inforcando gli occhiali. L’oscurità del paesaggio divenne subito nitida in tutti i dettagli, e per la prima volta potei osservare limpidamente la Terra dell’anno 657.208.

Il cielo brulicava di stelle, ma la nera cicatrice della Sfera appariva enorme e netta. La sabbia che ricopriva il suolo ovunque emanava un odore di ruggine e di umidità, come di licheni e di muschio. L’aria era impregnata del puzzo dolciastro dei Morlock.

Provai un certo sollievo nell’essere finalmente fuori della capsula e sentire la solidità del terreno sotto gli stivali. Risalii il versante della collina sino al basamento della Sfinge dai pannelli di bronzo, e mi fermai a metà strada, nel luogo dove un tempo sorgeva la mia casa. Poco più in alto vidi un nuovo edificio, basso, a pianta quadrata. Non si vedevano Morlock, in netto contrasto con le impressioni avute in precedenza, quando, brancolando nel buio, mi era parso che i Morlock fossero ovunque.

Non vi era traccia della macchina del tempo, a parte alcuni solchi nella sabbia e le strane impronte allungate tipiche dei Morlock. La macchina era stata nuovamente trasportata all’interno della Sfinge? Al pensiero che la storia si stesse ripetendo, serrai i pugni: il distacco che avevo maturato durante il viaggio interplanetario svanì rapidamente, sostituito da una violenta crisi di panico. Cercai di calmarmi. Ero stato tanto sciocco da illudermi che la macchina del tempo fosse lì ad aspettarmi accanto alla capsula? Non potevo cedere alla violenza proprio in quel momento, quando la situazione pareva propizia al mio piano di fuga.

— A quanto pare, siamo soli — dissi a Nebogipfel, che mi aveva raggiunto.

— I bambini sono stati allontanati da questa zona.

— Sono dunque tanto pericoloso? — Di nuovo, mi vergognai di me stesso. — Dimmi dove si trova la macchina.

Benché Nebogipfel si fosse tolto gli occhiali, non riuscii a decifrare l’espressione dei suoi occhi rosso-grigi: — È stata trasportata in un luogo più sicuro. Puoi ispezionarla, se vuoi.

Mi sentivo attirato verso la macchina come se un cavo d’acciaio mi trascinasse a forza. Non vedevo l’ora di ritrovarla, di montare sul sellino, di abbandonare i Morlock e quel mondo di oscurità, e di tornare nel passato… Ma dovevo avere pazienza. Sforzandomi di mantenere un tono di voce calmo, risposi: — Non è necessario.

Allora Nebogipfel mi condusse al piccolo edificio che avevo notato poco prima. Apparentemente ricavato da un unico blocco, come tutte le costruzioni morlock, sembrava una casa di bambola, con il tetto a capanna e una semplice porta a cardini. Conteneva un pagliericcio, una coperta, una sedia, e un vassoio con acqua e cibi dall’aspetto invitante. Sul pagliericcio c’era il mio zaino.

— Siete stati premurosi — commentai, rivolto alla mia guida.

— Rispettiamo i tuoi diritti — ribatté Nebogipfel, e se ne andò. Quando mi tolsi gli occhiali, il Morlock parve scomparire nell’oscurità.

Con un certo sollievo, chiusi la porta. Con piacere tomai a godere soltanto della mia compagnia, almeno per un poco. L’intenzione d’ingannare Nebogipfel e il suo popolo mi fece vergognare, ma il mio piano mi aveva già permesso di percorrere milioni di miglia e di arrivare a poche centinaia di metri dalla macchina del tempo: non potevo sopportare l’idea di fallire proprio adesso.

Sapevo che se avessi dovuto affrontare Nebogipfel per fuggire, lo avrei fatto.

A tastoni aprii lo zaino, trovai una candela e l’accesi. La confortante luce gialla e le volute di fumo trasformarono quel rifugio in una vera e propria casa. Come avevo previsto, i Morlock non mi avevano restituito l’attizzatoio, però mi avevano lasciato il resto dell’equipaggiamento, incluso il coltello a serramanico. Poiché la barba lunga e folta m’infastidiva, mi rasai alla bell’e meglio servendomi del coltello e di un vassoio come specchio. Poi mi cambiai la maglieria intima: non avrei mai immaginato che indossare calzini puliti potesse suscitare un piacere tanto sensuale: con affetto, rivolsi un pensiero alla signora Watchet, che aveva messo nello zaino quei preziosissimi indumenti. Infine, al colmo della soddisfazione, caricai la pipa con il tabacco e l’accesi alla fiamma della candela.

Poi, circondato dai miei pochi effetti personali, mentre l’aroma denso del tabacco si spargeva nell’aria, mi sdraiai sul pagliericcio e, avvolgendomi nella coperta, mi addormentai.

Mi svegliai nell’oscurità.

Era strano svegliarsi senza la luce del giorno, un po’ come essere disturbati nel cuore della notte. Durante tutto il periodo trascorso nella Notte Nera dei Morlock, non riuscii mai veramente a riposare, perché il mio organismo non riusciva a stabilire un ciclo di sonno e di veglia.

Poiché avevo chiesto a Nebogipfel di ispezionare la macchina del tempo, mi sentivo sempre più inquieto, persino quando consumavo i pasti o espletavo i miei bisogni fisiologici. Il mio piano aveva una strategia semplicissima: volevo impadronirmi della macchina alla prima occasione. Contavo sul fatto che i Morlock, abituati da millenni all’uso di macchine sofisticate in grado di assumere qualunque forma, non riuscissero a comprendere un apparecchio rozzo come la macchina del tempo, e dunque neppure a intuire che il semplice inserimento di due leve potesse riattivarne il funzionamento. Almeno, così speravo.