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Per un paio di decenni avevo trascorso gran parte della mia vita in quell’ambiente: ricavato da una serra con una sottile struttura in ferro battuto dipinta di bianco, si affacciava sul giardino, e in passato aveva offerto una bella vista del fiume. Ma molto tempo prima avevo fatto sostituire i vetri con tavole di legno, sia per avere un’illuminazione sempre uniforme, sia per sottrarmi alla curiosità dei vicini. In quel momento, però, gli attrezzi e gli apparecchi che si scorgevano nella semioscurità mi rammentarono le enormi macchine che avevo intravisto nelle caverne dei Morlock. Mi domandai se non avevo qualcosa di morboso che mi apparentasse ai Morlock e decisi che, al mio ritorno, avrei sostituito nuovamente le tavole con i vetri, in modo tale che nel laboratorio regnasse la luce degli Eloi, anziché la tenebra dei Morlock.

Finalmente, mi avvicinai alla macchina del tempo.

Il grosso congegno sbilenco si trovava presso la parete nordoccidentale del laboratorio, nella posizione in cui a ottocento millenni di distanza nel tempo, l’avevano collocato i Morlock, nel tentativo d’intrappolarmi all’interno della base della Sfinge Bianca. Lo spostai di nuovo fino all’angolo sudoccidentale, dove l’avevo costruito. Guardando all’interno distinsi nella penombra i quattro cronometri che misuravano il passaggio della macchina attraverso la statica successione di date che costituivano la Storia. In quel momento, naturalmente, tutte le lancette erano sullo zero, poiché la macchina era tornata nella propria epoca. Accanto alla fila dei cronometri erano installate le due leve che consentivano di avviare quella creatura nelle due direzioni: il passato e il futuro.

D’impulso, protesi una mano per accarezzare la leva del futuro. Il solido e intricato congegno di metallo e d’avorio rabbrividì come se fosse vivo. Sorrisi. La macchina mi stava rammentando che ormai non apparteneva più a quel pianeta, a quello spazio, a quel tempo! Unica fra tutti gli oggetti materiali dell’universo, tranne quelli che avevo portato con me, la macchina del tempo aveva otto giorni più del suo mondo, in quanto ero tornato il giorno stesso della mia partenza, dopo una settimana trascorsa nell’epoca dei Morlock.

Posai la macchina fotografica e lo zaino sul pavimento del laboratorio e appesi il cappello all’interno dello sportello. Rammentando che i Morlock avevano ispezionato la macchina, la esaminai per accertarmi che non l’avessero manomessa. Non mi presi la briga di pulire la gabbia dalle chiazze di fango e dai residui d’erba e di muschio che ancora la imbrattavano, perché non mi ero mai curato delle apparenze. Raddrizzai però una sbarra che si era piegata, controllai le viti, lubrificai le leve di quarzo.

Rievocando nella mente il disperato senso di panico alla scoperta che i Morlock mi avevano rubato la macchina del tempo, provai uno slancio di affetto sincero nei confronti di quello sgraziato congegno. Era costituito da una gabbia di nichel, ottone e quarzo, ebano e avorio, e la forma ricordava forse un orologio da chiesa, con un sellino da bicicletta incongruamente installato al centro. Il quarzo e il cristallo di rocca, cosparsi da un velo di plattnerite, che scintillavano lungo l’intelaiatura conferivano al congegno un aspetto sghembo e irreale.

Naturalmente, la macchina non avrebbe potuto funzionare senza le proprietà della strana sostanza che io stesso avevo battezzato plattnerite.

Ricordai le circostanze in cui ne ero entrato casualmente in possesso: una notte di vent’anni prima, uno sconosciuto aveva bussato alla porta e mi aveva consegnato un pacchetto che ne conteneva un campione. Alto e massiccio, di parecchi anni più vecchio di me, con la chioma brizzolata, la testa grande e strana, abbigliato con indumenti dai tipici colori usati nella giungla, si era presentato come Plattner e mi aveva esortato a studiare la potente sostanza contenuta in un flacone per medicinali. Ebbene, quella sostanza era rimasta del tutto ignorata sopra uno scaffale del laboratorio per oltre un anno, mentre mi dedicavo a ricerche più importanti, finché, in un tetro pomeriggio domenicale, avevo prelevato il flacone dallo scaffale…

E ciò che avevo scoperto aveva condotto, infine… alla macchina del tempo!

Il propellente della macchina, ciò che rendeva possibile viaggiare nel tempo, era la plattnerite cosparsa sulla struttura di quarzo. Ma mi lusingo di credere che fosse stata necessaria la mia personale combinazione di analisi e d’immaginazione per comprendere e sfruttare le proprietà di quella sostanza sorprendente, che un uomo meno ingegnoso non avrebbe saputo individuare.

Senza il conforto di verifiche sperimentali, avevo preferito non divulgare i risultati che avevo ottenuto in quel bizzarro campo di ricerca. Mi ripromisi di scrivere subito dopo il mio ritorno, con il conforto di reperti e fotografie, un resoconto per Philosophical Transactions, che sarebbe diventato sicuramente famoso, aggiungendosi ai diciassette saggi di fisica ottica che vi avevo già pubblicato. Pensai che sarebbe stato divertente dare al resoconto un arido titolo del tipo “Alcune riflessioni sulle anomale proprietà cronotiche del minerale chiamato plattnerite”, e inserirvi la rivelazione sconvolgente della possibilità reale di viaggiare nel tempo!

Ero pronto. Mi rimisi in testa il cappello, con la falda sugli occhi, e sistemai lo zaino e la macchina fotografica sotto il sellino. D’impulso, andai verso il caminetto a prendere l’attizzatoio. Soppesando il robusto arnese, pensai che avrebbe potuto essermi utile, quindi lo infilai saldamente nella gabbia della macchina.

Montai sul sellino e posai una mano sulle leve di partenza. La macchina tremò, come se fosse diventata un animale del tempo.

Osservando il laboratorio nella sua realtà terrestre, rimasi colpito dal fatto che in quel momento apparivamo entrambi fuori posto: io, nel mio costume da esploratore dilettante, e la macchina, con la sua forma aliena e i suoi residui di futuro, benché tutti e due fossimo in un certo senso figli di quel luogo. Ebbi la tentazione d’indugiare. Che male avrebbe fatto restare un altro giorno, o una settimana, o un anno, adagiato nelle comodità del mio secolo? Avrei potuto recuperare le forze, guarire dalle ferite… Mi stavo forse lanciando con troppa precipitazione nella nuova avventura?

Dal corridoio giunse un rumore di passi, la maniglia della porta ruotò: Dev’essere lo Scrittore, pensai.

D’improvviso, presi una decisione. Il mio coraggio non sarebbe certo aumentato se mi fossi trattenuto in quel cupo e imbalsamato diciannovesimo secolo. Inoltre, non avevo nessun altro a cui dire addio.

Spinsi la leva sulla posizione estrema. Ebbi la strana sensazione di ruotare che si prova nel primo istante del viaggio temporale, seguita da quella altrettanto incontrollabile di precipitare a capofitto. Il fatto di riprovare quella sensazione inquietante mi strappò un’esclamazione, credo. Ebbi l’impressione di udire un tintinnio: forse un vetro del lucernario fracassato dallo spostamento d’aria. E poi, per l’infinitesimo brandello di un secondo, lo vidi sulla soglia: lo Scrittore, una figura indistinta e spettrale, con una mano alzata protesa nella mia direzione, e intrappolato nel tempo!

Infine scomparve, risucchiato nel vortice invisibile del mio volo. Le pareti del laboratorio si fecero indistinte, e ancora una volta si dispiegarono attorno a me le ali immani del giorno e della notte.