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D’improvviso, Nebogipfel emise un suono strano, una sorta di sibilo felino, e si rannicchiò ancor più contro la gabbia, con i grandi occhi fissi dinanzi a sé.

Girandomi, scoprii che si manifestavano di nuovo gli straordinari effetti ottici da me osservati durante il viaggio verso l’anno 657.208: tutt’intorno, fitte e sfarzose distese stellari tentarono d’irrompere attraverso la superficie smorzata delle cose… E a pochi metri dalla macchina si librò di nuovo il mio compagno impossibile: l’Osservatore, che mi scrutava. Mi aggrappai alla gabbia, fissando quella parodia di viso umano, quei tentacoli ciondolanti, e di nuovo mi colpì la somiglianza con l’essere che avevo visto sulla spiaggia remota, trenta milioni di anni nel futuro.

Stranamente, gli occhiali che mi erano stati tanto utili per vedere nell’oscurità dei Morlock, non mi facilitarono nello scrutare l’Osservatore: non lo vidi più chiaramente che a occhio nudo.

A un tratto, sentii un suono fievole, come un gemito: era Nebogipfel, sempre rannicchiato contro la gabbia, evidentemente in preda all’angoscia.

— Non devi avere paura — dissi, con una certa insicurezza. — Ti ho già raccontato del mio incontro con quest’essere, durante il viaggio verso la tua epoca: è strano, ma non mi sembra pericoloso.

Fra i tremiti e i gemiti, Nebogipfel replicò: — Non capisci… Ciò che stiamo vedendo è impossibile. Quello che chiami l’Osservatore sembra avere la capacità di attraversare i corridoi temporali, di passare da una versione potenziale della storia all’altra, persino di entrare nello spazio distorto intorno alla macchina del tempo in viaggio, e tutto ciò… È impossibile!

Com’era apparsa, così la distesa stellare svanì, e l’Osservatore ridivenne invisibile, mentre la macchina proseguiva il viaggio nel passato.

Dopo un lungo silenzio, dichiarai, con voce rauca: — C’è una cosa che devi sapere, Nebogipfel… Dopo quest’ultimo viaggio, non ho nessuna intenzione di tornare nel futuro.

Il Morlock avvolse le lunghe dita intorno alle sbarre della gabbia: — So di non poter tornare. Lo sapevo anche nel momento in cui mi sono gettato nella macchina. Persino se tu avessi avuto intenzione di tornare nel futuro…

— Sì?

— Tornando ancora una volta indietro nel tempo, la tua macchina è destinata a provocare un’altra modificazione della storia, in una maniera imprevedibile. — Nebogipfel si volse a guardarmi con i grandi occhi protetti dagli occhiali. — Capisci? La mia storia, il mio mondo, sono perduti: forse annientati. Sono già diventato un profugo temporale… proprio come te.

Tali parole mi raggelarono. Era mai possibile che Nebogipfel avesse ragione? Era mai possibile che con quella nuova spedizione, semplicemente stando seduto lì, a bordo della macchina, stessi infliggendo danni ulteriori al corpo della storia?

Così si rafforzò in me la determinazione a rimediare ai danni compiuti e a porre fine alla distruttività della macchina del tempo.

— Ma se sapevi tutto questo, nel seguirmi così avventatamente hai commesso una follia di prim’ordine…

— Forse — riconobbe Nebogipfel, con voce soffocata, perché si nascondeva la testa con le braccia. — Ma vedere tutto questo, viaggiare nel tempo, raccogliere tali informazioni… Nessuno della mia specie ha mai avuto un’occasione del genere!

Nel silenzio che seguì, la mia simpatia per Nebogipfel aumentò. Mi domandai come avrei reagito io se avessi avuto a disposizione un solo istante per cogliere una simile opportunità, com’era accaduto a lui.

Mentre le lancette dei cronometri continuavano a spostarsi all’indietro, mi resi conto che ci stavamo avvicinando al mio secolo. Il mondo intorno a noi assunse una conformazione più familiare, con il Tamigi che scorreva risolutamente fra le sue antiche sponde, e la comparsa fugace di ponti che mi sembrava di riconoscere.

Tirai le leve per rallentare. Il sole divenne visibile come un oggetto distinto che volava sopra di noi, simile a un proiettile luminoso, e le notti divennero percettibili come un tremolio. Le lancette di due cronometri si fermarono: restavano da percorrere soltanto alcune migliaia di giorni, ossia pochi anni.

Intanto, Richmond Hill si solidificò in una forma molto simile a quella della mia epoca. Poiché la velocità del viaggio riduceva gli alberi a una trasparenza fugace, mi fu possibile osservare i prati di Petersham e di Twickenham, cosparsi di boschetti antichi. Era tutto rassicurante e familiare, nonostante la nostra velocità fosse tale da non permetterci di distinguere le persone, o i cervi, o le vacche, o altri abitanti della collina, dei prati o del fiume. Il pulsare delle notti e dei giorni immergeva tutto il paesaggio in una luminosità innaturale. Comunque, ero quasi a casa.

Osservai il cronometro delle migliaia, con la lancetta che si avvicinava allo zero: ero a casa. E mi fu necessaria tutta la determinazione di cui disponevo per non fermare subito la macchina, tanto era smodato il mio desiderio di ritornare all’anno da cui ero partito. Tuttavia, continuai a premere sulle leve, osservando le lancette dei cronometri passare nel settore negativo.

Intorno a me, i giorni e le notti pulsarono sulla collina, chiazzata dalle macchie sparse di colore dei gruppi di gitanti che facevano picnic sull’erba, indugiando a sufficienza per essere percepibili. Infine, con i cronometri che indicavano seimilacinquecento sessanta giorni prima della mia partenza, tirai le leve.

Fermai la macchina del tempo nel cuore di una notte nuvolosa e senza luna. Se i miei calcoli erano esatti, ci trovavamo nel luglio del 1873. Per mezzo degli occhiali morlock, osservai il versante della collina e la sponda del fiume, l’erba luccicante di rugiada, e scoprii che, sebbene i Morlock avessero trasportato la macchina su un tratto sgombro del versante, a mezzo miglio da casa mia, nei dintorni non vi era nessuno ad assistere al mio arrivo. Fui felice di essere assalito dai rumori, dagli odori e dalle immagini del mio secolo, deliziosi e familiari: il profumo acre del fumo di legna proveniente da qualche graticola; il mormorio lontano del Tamigi; lo stormire della brezza tra le fronde degli alberi; i chiarori di nafta delle carrette degli ambulanti.

Con circospezione, Nebogipfel si alzò. Aveva indossato la giacca, che gli pendeva addosso, troppo grande, come se fosse un bambino: — È questo il 1891?

— No.

— Che cosa vuoi dire?

— Voglio dire che sono tornato ancora più indietro nel tempo. — Guardai la collina, in direzione della mia casa. — In un laboratorio, lassù, un giovane impetuoso sta conducendo una serie di esperimenti che alla fine lo condurrà a creare la macchina del tempo…

— Stai dicendo…

— Che questo è l’anno 1873, e che prevedo d’incontrare, fra poco, me stesso da giovane.

Sbalordito, il Morlock girò verso di me il volto occhialuto e senza mento.

— Forza, Nebogipfel, aiutami a trovare un nascondiglio per la macchina.

2

A casa

Non so descrivere quanto mi parve strano passeggiare per Petersham Road nell’aria notturna, tornando finalmente a casa mia, con un Morlock accanto.

La casa, l’ultima della fila, aveva ampi balconi chiusi a vetrate, la cornice della porta scolpita in maniera assai poco ambiziosa, e un portico con colonne in stile neoclassico. Lungo la facciata, una scala con una sottile ringhiera dipinta di nero scendeva al seminterrato. Nell’insieme, sembrava un’imitazione delle ville di Green, o Terrace, in cima alla collina. Comunque, era un’abitazione spaziosa e comoda, che avevo acquistato a buon prezzo da giovane, e da cui non avevo mai avuto intenzione di trasferirmi.

Superata la porta principale, girai verso il retro della casa, dove i balconi dalle delicate ringhiere in ferro dipinte di bianco erano rivolti a occidente. Nel vedere che le finestre della sala da fumo e della sala da pranzo erano buie, mi resi conto di non sapere che ora fosse. Mi accorsi che presso la sala da fumo mancava qualcosa, ma poiché un’assenza inaspettata è più difficile da individuare di una presenza incongrua, tardai un poco a ricordare che si trattava del bagno che avrei fatto costruire in seguito. Nel 1873, ero ancora obbligato a lavarmi in un semicupio, che un domestico mi portava in camera da letto.