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Con un brivido di emozione, vidi che nel laboratorio, ricavato dalla serra sproporzionata che sporgeva dal retro della casa, brillava ancora una luce. Gli ospiti, se ne avevo avuti a cena, se n’erano andati, i domestici si erano ormai ritirati da tempo, ma il padrone di casa, cioè io, era ancora al lavoro.

Ero in preda a una ridda di emozioni che nessuno, credo, aveva mai provato prima: quella era la mia casa, eppure non potevo reclamarne la proprietà.

Tornai alla porta principale. Un po’ in disparte dalla strada deserta, Nebogipfel sembrava maldisposto ad avvicinarsi alla scala, che scendeva in un’oscurità molto fitta persino per gli occhiali morlock.

— Non devi avere paura — spiegai. — È del tutto consueto, in case come questa, avere le cucine nel seminterrato. I gradini e le ringhiere sono abbastanza solidi.

Impassibile, con gli occhi celati dagli occhiali, Nebogipfel esaminò sospettosamente i gradini. Immaginai che tale diffidenza derivasse dall’ignoranza sulla robustezza degli oggetti prodotti nel diciannovesimo secolo: non avevo tenuto conto di quanto dovesse sembrargli strana la mia epoca primitiva. Nondimeno, vi era nel suo atteggiamento qualcosa che mi turbava.

Ricordai, sconcertato, uno strano episodio della mia fanciullezza. La casa in cui ero cresciuto era vasta e labirintica, scomoda, in verità, con corridoi sotterranei che conducevano alle stalle, alla dispensa, e così via, com’era consueto negli edifici di quell’epoca. Grate rotonde, dipinte di nero, chiudevano i condotti di ventilazione che salivano dai sotterranei. In quel momento ricordai dunque la paura che i pozzi avevano suscitato in me quand’ero fanciullo. Benché ne conoscessi la funzione, l’immaginazione mi aveva indotto a chiedermi che cosa sarebbe accaduto se una mano ossuta fosse spuntata dalle sbarre larghe ad afferrarmi una caviglia…

Oltre a suscitare tale ricordo, qualcosa nell’atteggiamento circospetto di Nebogipfel mi fece notare una somiglianza tra i pozzi della mia fanciullezza e quelli, sinistri, dei Morlock: era forse per tale motivo, alla fin fine, che avevo aggredito con tanta violenza i piccoli Morlock nell’anno 657.208?

Non sono uomo tale da gioire di siffatte analisi del proprio carattere, perciò, del tutto ingiustamente, aggiunsi, in tono tagliente: — Comunque, pensavo che a voi Morlock piacesse il buio! — E mi allontanai, salendo i gradini che conducevano alla porta principale.

Tutto era familiare, eppure al tempo stesso diverso in maniera sconcertante. Persino a un primo sguardo individuai mille piccole differenze rispetto alla mia epoca, diciotto anni nel futuro: per esempio, l’architrave cadente che avrei sostituito in seguito, e lo spazio vuoto in cui, esortato dalla signora Watchet, avrei fatto installare un lampioncino arcuato.

Ancora una volta mi resi conto di quanto fosse sconcertante viaggiare nel tempo. Quando si affrontava un viaggio di migliaia di secoli, era ovvio aspettarsi cambiamenti drastici, di cui io stesso ero stato testimone; ma anche un breve viaggio di pochi decenni rendeva anacronistico colui che lo eseguiva.

— Che cosa devo fare? — chiese Nebogipfel. — Devo aspettarti?

Meditai sulla presenza silenziosa del Morlock accanto a me: con i suoi occhiali e con la mia giacca, aveva un aspetto tanto comico quanto allarmante. — Credo che sarebbe più pericoloso se tu rimanessi qui fuori — risposi. — Se un poliziotto ti vedesse, potrebbe scambiarti per un ladro. E se tu venissi arrestato… — Non sapevo se in una stazione di polizia del 1873 un Morlock sarebbe stato considerato comico o pericoloso. Senza le sue macchine sofisticate, Nebogipfel era inerme: si era lanciato nel viaggio temporale senza alcuna preparazione, proprio come avevo fatto io la prima volta. — E se ti vedesse un cane, o un gatto? Non so come si comporterebbe un animale maschio degli anni Settanta del diciannovesimo secolo nei confronti di un Morlock: forse lo considererebbe un buon pasto… No, Nebogipfeclass="underline" tutto sommato, credo che sarai più al sicuro se rimarrai con me.

— E come reagirà il giovane a cui stai per fare visita?

Sospirai: — Be’, ho sempre avuto il dono di una mentalità aperta ed elastica… O almeno, così mi piace credere! Forse lo scoprirò tra poco. Inoltre, la tua presenza potrebbe contribuire a convincere me, o meglio lui, della veridicità del mio resoconto.

Senza concedermi ulteriori esitazioni, suonai il campanello.

All’interno udii uno sbattere di porte e un grido, pronunciato in tono d’irritazione: — Va bene, va bene… Arrivo! — Seguì un rumore di passi nel breve corridoio che collegava il laboratorio al resto della casa.

— Sono io — sussurrai a Nebogipfel. — È lui. I servi sono a letto: dev’essere tardi.

La chiave girò nella serratura.

— Gli occhiali — sussurrò Nebogipfel.

Subito mi tolsi l’anacronistico oggetto dal viso, ficcandolo in una tasca dei calzoni, proprio mentre l’uscio si apriva.

Apparve un giovane dal viso splendente alla luce dell’unica candela che portava. Guardò brevemente me, che ero in maniche di camicia, e ancora più superficialmente esaminò Nebogipfel, liquidando così la capacità di osservazione di cui andavo tanto fiero. — Che cosa diavolo volete? Sapete che è già passata l’una del mattino?

Mentre aprivo la bocca per parlare, il discorsetto di presentazione che mi ero preparato si cancellò dalla mia mente.

Fu così che affrontai me stesso all’età di ventisei anni.

3

Mosè

Da quando ho avuto quell’esperienza, sono persuaso che noi tutti, senza eccezione, usiamo lo specchio per ingannare noi stessi. Il riflesso che vediamo in esso è completamente sotto il nostro controllo: privilegiamo inconsciamente i nostri tratti migliori e interpretiamo i nostri vezzi in una maniera che il nostro più intimo amico non riconoscerebbe. E naturalmente non abbiamo nessuna inclinazione a osservarci da punti di vista meno favorevoli: per esempio, da dietro, o con il naso che sporge in tutto il suo glorioso profilo.

Ebbene, in quel momento mi trovai dinanzi a un riflesso che non era sotto il mio controllo, e l’esperienza mi turbò.

Il giovane che mi stava dinanzi era alto come me, naturalmente: semmai mi accorsi, sbalordito, di essermi abbassato un po’, nei diciotto anni che ci separavano. La sua fronte era strana: era particolarmente ampia, come molte persone mi hanno sempre detto poco gentilmente, con un ciuffo di sottili capelli castani, non ancora diradati né brizzolati. Avevo gli occhi grigio chiaro, il naso diritto, la mandibola risoluta, ma di certo non ero bello: il suo pallore naturale era accentuato dalle lunghe ore trascorse fin dall’adolescenza negli studi, nelle biblioteche, nelle aule, nei laboratori.

Provai una vaga repulsione: avevo davvero qualcosa del Morlock. E davvero le mie orecchie erano così prominenti?

Ma furono gli indumenti ad attirare la mia attenzione: gli indumenti!

Il giovane indossava quello che ricordavo come un costume da damerino: giacca corta e scarlatta, con un fiore all’occhiello, sopra un panciotto giallo e nero dai grossi bottoni d’ottone, e alti stivali gialli.

Avevo mai indossato indumenti simili, io? Sicuramente! Ma qualunque abbigliamento si discostasse dal mio attuale stile sobrio era difficile da immaginare.