— Dannazione! — Non potei fare a meno di commentare. — Sei vestito come un pagliaccio da circo!
Sebbene incerto, evidentemente perché scorgeva a sua volta qualcosa di strano nel mio viso, il giovane ribatté abbastanza prontamente: — Forse dovrei chiuderle la porta in faccia, signore. È salito fin quassù soltanto per insultarmi a causa del mio abbigliamento?
Allora notai che il fiore all’occhiello era alquanto appassito, ed ebbi l’impressione che il suo alito puzzasse di brandy: — Dimmi… È forse giovedì?
— È una domanda molto strana. Dovrei… — Ebbene?
Sollevando la candela, il giovane mi scrutò in viso. Era talmente affascinato da me, ossia da colui che vagamente riconosceva come se stesso, che ignorò Nebogipfel, un essere proveniente dal lontano futuro, che si trovava a meno di due metri da lui. Mi domandai se quell’incontro contenesse qualche rozza metafora: nonostante tutto, avevo forse viaggiato nel tempo soltanto alla ricerca di me stesso?
Ma non ho tempo per l’ironia, e mi sento piuttosto imbarazzato per essermi abbandonato a una simile riflessione letteraria.
— Guarda caso, è proprio giovedì, o meglio, lo era, visto che sono già le prime ore di venerdì. Ma che importa? E tanto per cominciare, perché lei non lo sa? Anzi, chi è lei, signore?
— Ti dirò chi sono, e ti dirò anche — indicai Nebogipfel, facendo sgranare gli occhi al nostro ospite riluttante — chi è costui, e perché non so né l’ora né il giorno. Ma prima… Possiamo entrare? Gradirei un po’ del tuo brandy.
Per circa mezzo minuto, il giovane rimase impalato, con lo stoppino della candela che scoppiettava nella sua pozza di cera, mentre, da lontano, giungeva il sospiro del Tamigi che scorreva languidamente sotto i ponti di Richmond. Finalmente, rispose: — Dovrei ricacciarvi in strada! Eppure…
— Lo so — convenni gentilmente, osservando con indulgenza il giovane me stesso. Non sono mai stato restio alle speculazioni più sfrenate, perciò potevo immaginare quali ardite ipotesi si stessero già agitando in quella sua mente feconda e indisciplinata.
Arrivato a una decisione, il giovane indietreggiò.
Con un gesto, invitai Nebogipfel a entrare. Il Morlock avanzò silenziosamente sul parquet del corridoio, con i piedi rivestiti soltanto di pelliccia, ricambiando con interesse lo sguardo del giovane, che nuovamente lo fissava.
— È… ehm… è tardi — disse il padrone di casa. — Non voglio svegliare i domestici. Andiamo in sala da pranzo: probabilmente, è l’ambiente più caldo.
Il corridoio, con lo zoccolo dipinto e una fila di pioli per appendere i cappelli, era buio. La testa grande del nostro ospite riluttante spiccava alla luce della candela, mentre ci guidava oltre la porta della sala da fumo. Nel caminetto della sala da pranzo ardeva ancora un letto di braci. Con quella candela, il giovane ne accese un’altra dozzina: due nei candelieri d’ottone sulla mensola, fra cui troneggiava il vaso panciuto del tabacco, e le altre nei candelabri a muro.
Osservai la stanza comoda e confortevole, illuminata dalle candele: mi era assai familiare, eppure mi sembrava molto diversa a causa di lievi differenze nella disposizione dell’arredamento. Accanto alla porta stava il tavolino, carico di giornali, che senza dubbio erano pieni di tetri commenti sugli ultimi discorsi del signor Disraeli, o magari di cupissime analisi sulla questione orientale. Vicino al caminetto era collocata la mia poltrona, bassa e comoda. Tuttavia non vi era traccia dei miei tavolini ottagonali, né delle mie lampade d’argento a incandescenza, a forma di giglio.
Il padrone di casa si avvicinò al Morlock e si curvò in avanti, posandosi le mani sulle ginocchia: — Cos’è questo? Sembra una specie di scimmia, o un bimbo deforme… E quella che indossa è forse la sua giacca?
Il suo tono, con mia stessa sorpresa, m’irritò: — “Questo” è in realtà “costui”, cioè una persona. E sa parlare.
— Davvero? — Il giovane si girò di nuovo a guardare il Morlock. — Accidenti! — E continuò a scrutare la faccia villosa del povero Nebogipfel, mentre io, in piedi sul tappeto della sala da pranzo, cercavo di non tradire l’impazienza, per non dire l’imbarazzo, che tanta scortesia suscitavano in me. Finalmente, rammentò i doveri dell’ospitalità: — Oh! Scusate… Accomodatevi, prego: sedete.
Impacciato dalla giacca, Nebogipfel rimase in piedi al centro del tappeto, davanti al caminetto, a osservare il pavimento, e poi la stanza. Notai che sembrava in attesa di qualcosa, e alla fine capii: era talmente abituato alla tecnica morlock della sua epoca, che aspettava di veder spuntare mobili e strumenti dal tappeto. Anche se in seguito si sarebbe dimostrato intelligente, sensibile e di mentalità aperta, in quel momento rimase tanto sconcertato quanto lo sarei stato io cercando un impianto a gas in una caverna dell’età della pietra.
— Nebogipfel — spiegai, — questa è un’epoca primitiva: le forme sono fisse. — E indicai il tavolo e le sedie, maitre il giovane me stesso ascoltava e osservava con evidente curiosità. — Devi scegliere una di queste.
Dopo breve esitazione, Nebogipfel si avvicinò a una delle sedie più robuste.
Ma io lo precedetti: — Per la verità, non questa — aggiunsi, gentilmente. — Non credo che la troveresti comoda: potrebbe cercare di farti un massaggio, però non è progettata per una persona del tuo peso…
Sbalordito, il padrone di casa mi fissò.
Sentendomi come un genitore imbarazzato, aiutai Nebogipfel a montare su una semplice sedia, dove rimase con le gambe ciondolanti come un bambino villoso.
— Come sapeva delle mie sedie attive? — chiese il giovane me stesso. — Le ho mostrate soltanto a pochi amici. Non ho neppure brevettato il progetto…
Mi limitai a scrutarlo negli occhi per un lungo momento, in silenzio, rendendomi conto che la risposta sbalorditiva alla sua domanda si stava già formando nella sua mente.
Infine, il padrone di casa distolse lo sguardo: — Si sieda, prego. Vado a prendere il brandy.
Mi accomodai accanto a Nebogipfel, ben consapevole di essere nuovamente seduto al tavolo della mia sala da pranzo in compagnia di un Morlock, e mi guardai nuovamente attorno. In un angolo, sul treppiede, stava il telescopio che avevo portato dalla casa dei miei genitori: benché fosse uno strumento molto rozzo, che consentiva di scorgere soltanto immagini confuse, nella mia fanciullezza era stato una finestra sui mondi portentosi del cielo e sulle meraviglie affascinanti della fisica ottica. Poiché le porte che si aprivano sul corridoio buio erano state lasciate negligentemente aperte, intravidi gli oggetti allettanti che stavano nel laboratorio: gli apparecchi sui banchi, i disegni sparsi sul pavimento, gli attrezzi più diversi.
Al ritorno, il nostro ospite portò goffamente un vassoio con tre bicchieri da brandy e una caraffa. Mentre versava tre dosi generose, il liquore scintillò alla luce delle candele: — Ecco… avete freddo? Volete che riaccenda il fuoco?
— No, grazie — risposi. Sollevai il bicchiere, fiutai il brandy, e bevvi un sorso, trattenendolo per un poco sulla lingua.
Anziché prendere il bicchiere, Nebogipfel intinse un dito pallido nel liquore, ne leccò una goccia sul polpastrello, e sembrò rabbrividire. Cautamente, allontanò il bicchiere, come se fosse pieno fino all’orlo della bevanda più nociva che si potesse immaginare.
Dopo aver osservato la scena con curiosità, il padrone di casa con uno sforzo evidente si rivolse a me: — Lei è in vantaggio: io non la conosco, ma lei, a quanto pare, conosce me.
— Sì — sorrisi. — Tuttavia, mi sento imbarazzato: non so come chiamarti.
— Non capisco come ciò possa essere un problema — replicò il giovane, accigliato, a disagio. — Il mio nome è…