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— Se non fosse mai stata costruita, tu non avresti potuto tornare indietro per impedire che lo fosse…

— Dunque la macchina verrebbe comunque costruita…

— E torneresti di nuovo indietro nel tempo per impedire che lo fosse, e tutto continuerebbe così, come una giostra che gira in eterno!

— Sì — confermò Nebogipfel, — è un circolo causale vizioso. La macchina del tempo deve essere costruita, perché se ne possa impedire la costruzione.

Mi coprii il viso con le mani. A parte la disperazione che provavo a causa dell’impossibilità della mia missione, avevo la sensazione inquietante che il giovane Mosè fosse più intelligente di me. Io stesso avrei dovuto rendermi conto di quelle contraddizioni. Forse era vero che l’intelligenza, al pari delle facoltà fisiche, declinava con l’invecchiamento.

— Nonostante questi problemi, è nondimeno la verità — sussurrai. — E la macchina del tempo non deve essere costruita.

— Allora fornisci tu una spiegazione — esortò Mosè, con scarsa simpatia. — Sembra che essere o non essere non sia affatto il problema. Se sei me, ricordi sicuramente di essere stato costretto a recitare la parte del padre di Amleto in un’orribile recita scolastica…

— Lo ricordo bene, infatti.

— A me sembra che il problema sia più complesso: com’è possibile che le cose possano essere e simultaneamente non essere?

— Comunque sia, è vero. — Nebogipfel si avvicinò, esponendosi un poco alla luce, e ci scrutò a turno. — Mi sembra che dobbiamo ragionare in maniera diversa, cioè in modo da comprendere e spiegare l’interazione della macchina del tempo con la storia, nonché la molteplicità della storia…

Proprio in quel momento, quando la mia incertezza era maggiore, si udì un ruggito, come di un motore gigantesco, che echeggiò sulla collina, all’esterno della casa, e il suolo fu scosso da un tremito, come quello che avrebbe potuto essere suscitato dal passo di un mostro. Si udì un grido, e poi, benché un evento del genere fosse del tutto impossibile nel mattino sonnolento di Richmond, tuonò una cannonata.

Sgomenti, Mosè e io ci scambiammo un’occhiata, e lui disse: — Accidenti… cos’è stato?

Di nuovo si sentì quella che sembrava una cannonata, e un urlo si trasformò in uno strillo che s’interruppe bruscamente.

Insieme, ci precipitammo nel corridoio. Mosè aprì la porta, a cui era già stato tolto il chiavistello. Ci precipitammo in strada, dove la signora Penforth teneva con una mano uno sgargiante strofinaccio giallo, e con l’altra stringeva un braccio del magro e severo Poole, che a quell’epoca era il domestico di Mosè. Entrambi, dopo averci lanciato un’occhiata distratta, distolsero lo sguardo, ignorando il Morlock come se non avesse un aspetto più strano di quello di un francese o di uno scozzese.

Sulla Petersham Road, alcuni passanti si erano fermati a guardare. Toccandomi un braccio per attirare la mia attenzione, Mosè indicò la strada in direzione della città: — Laggiù! Ecco la causa di tutto!

Sembrava che un’ondata immane avesse prelevato dal mare una corazzata per deporta su Richmond Hill. A meno di duecento metri dalla casa, una grande macchina metallica semovente, lunga almeno ventiquattro metri, percorreva Petersham Road come un gigantesco insetto di ferro.

Non si trattava, però, di un mostro isolato dal suo ambiente. Capii che la macchina avanzava verso di noi, lentamente ma inesorabilmente, lasciando sulla strada una serie d’impronte profonde, simili alle tracce di un uccello. Nella parte superiore era dotata di parecchi portelli, che mi parvero destinati a consentire la fuoriuscita di armi o di strumenti d’osservazione.

Le vetture erano state costrette a fare strada alla macchina: due calessi erano rovesciati, come pure il carro senza sponde di un birraio, con il cavallo spaventato ancora impigliato nei finimenti, e la birra che si versava dalle botti fracassate.

Un giovane temerario, che indossava un berretto, lanciò contro la macchina un sasso del selciato, che rimbalzò sul metallo senza neppure graffiarlo, ma suscitando una risposta: la canna di un fucile spuntò da un portello e fece fuoco, con uno schianto.

Il giovane crollò sul posto e giacque immobile.

Allora la folla si disperse rapidamente, strillando. Poole riaccompagnò in casa la signora Penforth, che piangeva tenendosi lo strofinaccio sul viso.

Sulla parte anteriore della macchina, un portello si aprì con un clangore, rivelando fugacemente l’interno buio, e una persona dal volto mascherato ci scrutò.

— Viene dagli abissi del tempo — dichiarò Nebogipfel — e cerca noi.

— È vero. — Mi rivolsi a Mosè: — Ebbene, mi credi, adesso!

7

Il corazzato Lord Raglan

Con il volto più pallido del solito, la fronte larga viscida di sudore, un sorriso teso e nervoso, Mosè commentò: — Evidentemente, non sei l’unico viaggiatore del tempo!

La fortezza semovente, ammesso che la macchina fosse qualcosa del genere, risalì lentamente la strada verso la mia casa. Era lunga e piatta, simile a un coprivivande, dipinta a chiazze verdi e marroni, come se il suo ambiente naturale fosse un campo incolto. Intorno alla base aveva una blindatura che sembrava costruita per proteggere le parti più vulnerabili dalle fucilate e dalle schegge avversarie. Procedeva a una velocità di circa sei miglia orarie, e grazie a un nuovo metodo di locomozione, di cui la blindatura m’impediva di distinguere i dettagli, riusciva a mantenere un assetto quasi orizzontale, nonostante la pendenza.

A parte noi tre, e il povero cavallo del birraio, non era rimasta anima viva in strada: il silenzio era rotto soltanto dal brontolio cupo delle macchine della fortezza e dai nitriti d’angoscia dell’animale intrappolato.

— Non ricordo nulla del genere — dichiarai. — Non esisteva niente del genere nel mio 1873.

Osservando attraverso gli occhiali la fortezza in avvicinamento, Nebogipfel rispose con voce calma: — Ancora una volta dobbiamo ripensare alla molteplicità della storia. Hai visitato due versioni dell’anno 657.208. Adesso sembra che tu debba affrontare una variante del tuo secolo.

La fortezza si fermò, con un brontolio di motori che ricordava quello di uno stomaco immenso. Mentre una bandiera sventolava pigramente nella parte superiore, alcuni volti mascherati ci osservarono dai portelli.

— Dici che possiamo scappare? — sibilò Mosè.

— Ne dubito… vedi le canne di fucile che spuntano dai portelli? Non so a quale gioco stia giocando questa gente, ma è evidente che ha i mezzi, e l’intenzione, per impedirci di fuggire. Andiamo loro incontro con dignità. Dimostriamo che non abbiamo paura.

E così, c’incamminammo sull’acciottolato prosaico di Petersham Road, incontro alla fortezza.

I fucili e i cannoni, nonché gli uomini dai volti mascherati, alcuni dei quali muniti di binocolo, seguirono la nostra avanzata.

Nell’avvicinarmi, potei osservare meglio la fortezza. Come ho detto, era lunga più di ventiquattro metri, e alta forse tre. I fianchi erano blindati. Nella parte superiore spiccavano una fitta serie di portelli da cui spuntavano armi e strumenti d’osservazione. Dalla parte posteriore fuoriuscivano getti di vapore. Sotto il bordo blindato inferiore, che era largo una trentina di centimetri e non toccava il suolo, non si scorgevano ruote, bensì oggetti simili a zampe d’elefante, ma più grandi: a giudicare dalle tracce che lasciavano sulla strada, dovevano avere la superficie inferiore scanalata, per aumentare l’aderenza. Capii che era grazie a quella sorta di zampe che la macchina riusciva a mantenere un assetto orizzontale nonostante la pendenza.