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Nella parte anteriore, la fortezza era munita di un rullo, fissato a due sostegni laterali, dal quale pendevano, senza toccare il suolo, pesanti catene che oscillavano producendo un clangore strano. Era evidente che il rullo poteva essere abbassato per fare in modo che le catene percuotessero il terreno, tuttavia non riuscii a immaginare quale potesse essere la funzione di quell’apparecchio.

Ci fermammo a meno di dieci metri dal muso della macchina, mentre i fucilieri ci tenevano sotto tiro e una brezza capricciosa ci soffiava il vapore addosso.

La comparsa della fortezza mi aveva colmato d’orrore, perché significava che ormai neppure il mio passato era stabile e affidabile, bensì poteva essere modificato, secondo i capricci dei viaggiatori temporali. Non potevo sfuggire agli influssi della macchina del tempo: era come se, una volta inventata, i suoi effetti si propagassero nel passato e nel futuro, come onde suscitate da un sasso gettato nel placido fiume del tempo.

Le mie riflessioni furono interrotte da Mosè: — Credo che sia inglese.

— Cosa? Perché dici questo?

— Non ti sembra un’insegna militare, quella sopra il bordo? Evidentemente, la vista del mio giovane alter ego era più acuta della mia. Scrutando con maggiore attenzione, mi sembrò, anche se non mi ero mai molto interessato agli argomenti militari, che Mosè avesse ragione.

Intanto, questi lesse le scritte in nero sulla macchina: — ‘‘Munizioni”… “Carburante”… se non appartiene a una colonia britannica, è americana, e proviene da un futuro vicino, in cui il linguaggio non è cambiato molto.

Si udì uno stridio metallico. Un volante girò sul fianco della fortezza, un portello si aprì verso l’esterno, un lustro bordo metallico scintillò, a contrasto con la tinta scura delle blinde, e s’intravide l’interno buio, simile a una caverna d’acciaio.

Fu gettata una scala di corda. Un soldato scese e s’incamminò sulla strada verso di noi. Indossava un berretto nero con un distintivo sulla fronte, un’uniforme di canapa pesante in un sol pezzo, con il collo dal bordo cachi, aperto, ed enormi spallacci metallici. Alla cintura aveva una giberna e una fondina aperta con una pistola, da cui non allontanava mai troppo le mani guantate.

Ma la caratteristica più sorprendente era una maschera che racchiudeva tutta la testa ed era dotata di grandi occhiali tondi e dalle lenti affumicate, nonché di una sorta di proboscide da insetto.

— Accidenti… — sussurrò Mosè. — Che aspetto!

— Davvero — concordai, in tono truce, giacché avevo capito subito la funzione di quell’equipaggiamento. — È per difendersi da eventuali gas. Vedi? Non ha un centimetro quadrato di pelle scoperto. E gli spallacci debbono avere la funzione di proteggerlo da dardi, magari avvelenati. Mi chiedo quali altre protezioni abbia sotto la tuta. Quale epoca mai ritiene necessario dover mandare indietro nel tempo un simile individuo, fino all’innocente 1873? Quella fortezza arriva da un futuro tenebroso, Mosè: un futuro di guerra.

Il soldato si avvicinò ancora, prima di parlare nel tono brusco che, sebbene attutito dalla maschera, era assolutamente caratteristico degli ufficiali, e in una lingua che sul momento non riconobbi.

Intanto, Mosè accostò il viso al mio: — È tedesco! Ma ha parlato con una pessima pronuncia. Che cosa diavolo sta succedendo?

Avanzai di alcuni passi, con le mani alzate: — Siamo inglesi. Ci capisce?

Non potevo vedere il suo volto, ma dal movimento delle spalle mi parve che il soldato provasse sollievo. Con una voce dal cui tono compresi che intrappolato in quel carapace da guerra stava un giovane, rispose, sempre in modo brusco: — Benissimo. Seguitemi, prego.

A quanto pareva, non avevamo molta scelta.

Il giovane militare attese presso la fortezza, con la mano sulla pistola, mentre salivamo per entrare.

— Mi dica una cosa… — domandò Mosè. — A che cosa servono le catene appese dinanzi al veicolo?

— E un apparecchio antimine — rispose l’ufficiale mascherato.

— Antimine?

— Le catene percuotono il suolo, mentre il Raglan avanza. — Con le mani guantate, l’ufficiale mimò ciò che stava descrivendo, pur senza perdere d’occhio Mosè. Era evidentemente britannico, visto che aveva creduto che noi fossimo tedeschi. — Fa esplodere in anticipo le mine interrate.

Dopo una breve esitazione, Mosè mi seguì ed entrò: — È un’ammirevole applicazione dell’ingegnosità britannica… e guarda lo spessore delle blinde: i proiettili vi si schiaccerebbero come gocce di pioggia. Di sicuro, soltanto un cannone da campo potrebbe rallentare questa macchina!

Il pesante portello si chiuse alle nostre spalle con un tonfo sordo e un rumore di guarnizioni in gomma.

Così, la luce del giorno scomparve.

Scortati, percorremmo uno stretto corridoio che attraversava la fortezza in tutta la lunghezza, illuminato in maniera del tutto insufficiente da due lampade elettriche. Nello spazio chiuso, il rumore dei motori riecheggiava in maniera assordante. Nell’aria ristagnavano gli odori di lubrificante, petrolio e cordite. Il calore era eccessivo, tanto che cominciai subito a sudare.

L’interno della fortezza mi si rivelò in una serie fugace d’impressioni tra luce fioca e oscurità. Vidi lungo i fianchi le sagome di otto ruote, ciascuna di tre metri di diametro, protette dalle blinde. Nella parte anteriore, un soldato, che occupava un’alta sedia di canapa, era circondato da leve, quadranti, e quelle che sembravano tenti di strumenti d’osservazione: immaginai che fosse il conducente. Nella parte posteriore erano situati i motori e i meccanismi di trasmissione: nell’oscurità, le macchine sembravano più ombre di mostri che oggetti costruiti dall’uomo. I soldati che le azionavano, protetti da maschere e guanti pesanti, avevano tutto l’aspetto di custodi d’idoli metallici.

In ognuno dei compartimenti stretti e scomodi situati in alto stava un soldato, visibile come un’ombra di profilo, ciascuno munito di diverse armi e di diversi strumenti ottici, quasi tutti di tipi a me ignoti, che fuoriuscivano dai portelli. I fucilieri e i macchinisti erano circa due dozzine, tutti mascherati, tutti abbigliati con berretti e uniformi simili a quelli del giovane ufficiale. E tutti ci fissarono senza nascondere la loro curiosità: si può bene immaginare quanto l’attirasse il Morlock!

Era un luogo tetro e spaventoso: un tempio semovente consacrato alla Forza Bruta. Non potei fare a meno di confrontare la sua tecnica rozza con quella raffinatissima dei Morlock della Sfera.

L’ufficiale ci raggiunse. Al sicuro nella fortezza, si era tolto la maschera, che gli pendeva sul petto come la pelle di una faccia scuoiata. Il suo viso, con le guance bagnate di sudore, confermava che era davvero giovane come avevo immaginato. — Seguitemi, prego — invitò. — Il capitano desidera darvi il benvenuto a bordo.

In fila, preceduti dall’ufficiale, c’incamminammo prudentemente, sulle strette passerelle metalliche, verso la prua della fortezza, sempre scrutati in silenzio dai soldati. A piedi nudi, Nebogipfel camminava quasi silenziosamente.

Vicino alla prua, un po’ dietro alla postazione del conducente, era installata una cupola d’ottone e di ferro che sporgeva dal tetto, all’interno della quale stava un militare mascherato, con le mani unite dietro la schiena, il quale, a giudicare dal portamento, doveva essere il comandante della fortezza. Indossava un berretto e un’uniforme simili a quelli dell’ufficiale, con gli spallacci metallici e la pistola alla cintura, ma anche due bandoliere incrociate, nonché diverse insegne e parecchie decorazioni sul petto.

Con estrema curiosità, Mosè si guardò attorno, quindi indicò una scala sospesa sopra il capitano: — Guardate… scommetto che può abbassarla mediante le leve che ha accanto, per poi salire nella cupola e guardare fuori, tutt’intorno, in modo da raccogliere ogni informazione necessaria per impartire le istruzioni ai macchinisti e agli artiglieri. — Sembrava impressionato dall’ingegnosità con cui era stato progettato e costruito quel mostro guerresco.