— Venite… — sospirò Filby. — C’è un ambiente, in fondo, dove possiamo accomodarci: è un po’ meno rumoroso e sporco di questo.
Così, c’incamminammo verso la parte posteriore del fortino.
Nel percorrere il corridoio centrale, ebbi la possibilità di osservare meglio il sistema di locomozione. Sotto le passerelle, vidi che le zampe di elefante che avevo già notato erano connesse, per mezzo di quelle che sembravano gambe corte, alle ruote, le quali, lasciando cadere pezzi di fango e di acciottolato, giravano mediante una doppia serie di assi che consentiva di sollevarle o di abbassarle. Mediante pistoni pneumatici, era possibile alzare e abbassare anche le zampe. In tal modo, la macchina poteva mantenere il proprio assetto anche sul suolo più impervio o più ripido.
Indicando l’intelaiatura della macchina corazzata, Mosè osservò in tono pacato: — Guarda… Non noti qualcosa di strano, là, e là? Quella struttura sembra di quarzo… è difficile capire che funzione abbia…
Benché non potessi esserne certo, alla luce delle lontane lampade elettriche, mi sembrò, scrutando la struttura di quarzo e di nichel, di scorgere una strana traslucidità verde, la quale mi parve più che familiare!
— È plattnerite — sussurrai a Mosè. — La struttura ne è stata cosparsa. Nonostante la luce incerta, non posso sbagliare: sono convinto che quei pezzi provengano dal mio laboratorio. Sono ricambi, prototipi e scarti rimasti dalla costruzione della macchina del tempo.
— Così — annuì Mosè — sappiamo almeno che questa gente non ha ancora imparato a produrre autonomamente la plattnerite.
Allora Nebogipfel si avvicinò per indicare un oggetto collocato in un recesso buio della sala macchine. Non fu facile, ma a furia di scrutare capii che si trattava della mia macchina del tempo, intatta e indenne, con la gabbia ancora macchiata d’erba, evidentemente recuperata da Richmond Hill e trasportata a bordo del fortino. Era assicurata per mezzo di quella che sembrava una ragnatela di funi.
Alla vista di quel potente simbolo di sicurezza, ebbi l’impulso quasi irrefrenabile di sfuggire, se possibile, ai soldati, di balzare a bordo della macchina, e magari di tornare nella mia epoca…
Sapendo però che sarebbe stato un tentativo vano, mi calmai. Anche se fossi riuscito a raggiungere la macchina (e non era possibile, perché i soldati mi avrebbero abbattuto in un istante), non sarei mai riuscito a ritrovare la mia epoca. Dopo quell’incidente, non avrei più potuto recarmi in nessuna versione del 1891 che avesse una minima somiglianza con l’anno sicuro e prospero che tanto follemente avevo abbandonato. Ero naufrago nel tempo!
— Che cosa ne pensi della macchina? — chiese Filby, percuotendomi una spalla con tutta la debolezza di un vecchio. — È stata progettata da sir Albert Stern, che si è distinto in questo campo sin dall’inizio della guerra. Mi sono interessato molto a questi mostri e alla loro evoluzione nel corso degli anni… Come sai, sono sempre stato affascinato dalla meccanica. Guarda… — E indicò i comparti della sala macchine. — Un’intera serie di motori Rolls Royce del tipo Meteor! E vedi quella? È una cassa ingranaggi Merrit-Brown. Abbiamo sospensioni Horstmann, e tre carrelli…
— Sì — interruppi. — Però, caro vecchio Filby, a che cosa serve tutto questo?
— A che cosa serve? Serve alla prosecuzione della guerra, naturalmente! — Filby gesticolò. — Questo è un corazzato di classe Kitchener: uno degli ultimi modelli. I corazzati sono stati progettati principalmente allo scopo di rompere l’assedio all’Europa: anche se sono costosi, inclini a guastarsi e vulnerabili all’artiglieria, sono in grado di superare qualunque ostacolo, tranne le trincee più larghe. Non ti sembra che Raglan sia un nome piuttosto appropriato? Lord Fitzroy Raglan, infatti, era il vecchio demonio che combinò quel gran pasticcio all’assedio di Sebastopoli, in Crimea. Forse il povero vecchio Raglan avrebbe…
— L’assedio all’Europa?
Mestamente, Filby mi guardò: — Scusa… Forse non avrebbero dovuto assegnarmi questo incarico, dopotutto… Continuo a dimenticare quanto poco devi sapere. Temo di essere diventato un povero vecchio rincoglionito. Ascolta… Devo dirti innanzitutto che siamo in guerra dal 1914.
— In guerra? E con chi?
— Be’, con i tedeschi, naturalmente. Con chi altri? Ed è veramente un guaio terribile…
Quelle parole, quella visione fugace di un’Europa futura ottenebrata da ventiquattro anni di guerra, mi raggelarono il cuore.
9
Nel Tempo
Entrammo in un ambiente di circa tre metri quadrati, che era poco più di una scatola metallica imbullonata all’interno del corazzato. Un’unica lampadina elettrica pendeva accesa dal soffitto. Le pareti erano rivestite di cuoio imbottito, che, oltre ad attutire il rumore dei motori, che pure si udiva ovunque come un cupo e continuo pulsare, attenuavano la tetraggine metallica del fortino. Sei semplici sedie, munite di cinghie di cuoio, erano fissate al pavimento, le une di fronte alle altre. L’arredamento era completato da un basso armadietto.
Dopo averci invitati, con un gesto, ad occupare le sedie, Filby si avvicinò all’armadietto: — Dovete assicurarvi. Quest’assurdità di saltare avanti e indietro nel tempo è scombussolante.
Seduti l’uno di fronte all’altro, Mosè ed io ci allacciammo le cinghie di sicurezza. Nebogipfel ebbe qualche difficoltà con le fibbie, perciò riuscì a stringere abbastanza le cinghie soltanto grazie all’aiuto di Mosè.
Quando Filby mi portò una tazza di tè e un biscottino, su un piattino di porcellana incrinato, non potei fare a meno di ridere: — I rivolgimenti del fato non cessano mai di stupirmi, Filby. Eccoci qui, in procinto di compiere un viaggio nel tempo a bordo di questo minaccioso fortino semovente… E tu ci servi tè e biscotti!
— Be’, questa impresa è già abbastanza difficile senza le comodità della vita. Tu dovresti saperlo!
Sorseggiai il tè tiepido, quindi, così corroborato (e credo, riflettendoci, che la mia condizione mentale fosse alquanto precaria, e che non volessi affrontare il mio futuro, né la prospettiva terribile della guerra del 1938), chiesi, in maniera incongrua e piuttosto maliziosa: — Dimmi, Filby… Non noti alcunché di, ehm, strano, nei miei compagni?
— Strano?
Quando gli ebbi presentato Mosè, il povero Filby rimase a fissarlo per un poco, con il risultato che il tè gli gocciolò lungo il mento.
— Ed ecco ciò che hanno di veramente sconvolgente i viaggi temporali — ripresi, con enfasi. — Dimentica tutti i discorsi sull’origine della specie o sul destino dell’umanità: è soltanto quando ci si trova faccia a faccia con se stessi da giovani, che ci si rende conto di che cosa significhi rimanere sconvolti!
Per un poco, il buon vecchio Filby, scettico fino all’ultimo, c’interrogò a proposito della nostra identità: — Credevo d’avere visto abbastanza mutamenti e portenti, in vita mia, anche senza la faccenda dei viaggi temporali. Ma adesso… Be’! — E sospirò.
Allora sospettai che avesse visto davvero un po’ troppo nel corso della sua lunga vita, poveretto: era sempre stato incline all’eccessiva preoccupazione, persino da giovane.
Mi curvai innanzi, per quanto le cinghie me lo consentissero: — Stento a credere che l’umanità sia divenuta tanto cieca e si sia tanto degradata… Dal mio punto di vista, questa vostra dannata guerra del futuro assomiglia molto alla fine della civiltà.
— Per l’umanità della nostra epoca — dichiarò solennemente Filby — forse lo è. Ma le giovani generazioni, che sono cresciute senza conoscere altro che la guerra e che non hanno mai sentito il sole in faccia senza la paura delle torpedini aeree… Be’, credo che vi siano abituate. È come se ci stessimo trasformando in una specie sotterranea.