Non riuscii a trattenermi dal lanciare un’occhiata al Morlock: — Qual è lo scopo di questa missione temporale?
— Non si tratta tanto di te, quanto della macchina. Secondo loro, era necessario garantire che la macchina del tempo venisse costruita. Capisci? La tecnologia temporale è vitale per lo sforzo bellico, o almeno, così ritengono alcuni. Loro capirono abbastanza bene come avevi proceduto nella tua ricerca, in base agli appunti che avevi lasciato, anche se non avevi mai pubblicato nulla sull’argomento. Esisteva soltanto lo strano resoconto del tuo primo viaggio nel futuro remoto, che ci avevi narrato durante il tuo breve ritorno. Dunque il Raglan è stato mandato a proteggere la tua casa da qualunque intrusione da parte di viaggiatori temporali… come te.
Allora Nebogipfel alzò la testa: — E così si è creata ulteriore confusione nella causalità. Evidentemente gli scienziati del 1938 non hanno ancora concepito il concetto della molteplicità. Non è possibile garantire alcunché a proposito del passato. Non si può cambiare la storia: è possibile soltanto generare nuove versioni…
Accorgendomi che Filby fissava quella visione sentenziante in abiti scolastici, da cui spuntavano membra villose, interruppi Nebogipfeclass="underline" — Non adesso. Dimmi, Filby… Chi sono i loro a cui ti riferisci?
Sorpreso dalla domanda, Filby rispose: — I membri del governo, naturalmente.
— Di quale partito? — intervenne Mosè, con voce tagliente.
— Partito? Oh, tutto ciò appartiene ormai al passato. — Con questa frase, pronunciata in tono noncurante, Filby ci comunicò la raggelante notizia: in Gran Bretagna, la democrazia era morta. Quindi proseguì: — Ci aspettavamo tutti di trovare qui die Zeitmaschine, in giro per Richmond Park nella speranza di ammazzare un po’ di gente… — E sembrò rattristarsi. — Si tratta dei tedeschi: i dannati tedeschi! Stanno combinando ovunque i guai più spaventevoli… Proprio come hanno sempre fatto!
In quel momento, l’unica lampada elettrica si affievolì, i motori ruggirono, e io provai l’ormai familiare sensazione di precipitare inesorabilmente, la quale mi annunciò che il Lord Raglan mi stava conducendo a compiere un altro viaggio nel tempo.
LIBRO TERZO
La guerra contro i tedeschi
1
Una nuova immagine di Richmond
Il mio ultimo viaggio nel tempo fu sobbalzante come sempre e ancora più disorientante del solito, probabilmente a causa della distribuzione ineguale della plattnerite nel corazzato, ma almeno fu breve, e poco a poco la sensazione di precipitare scomparve.
Ritratto perfetto della sofferenza, Filby rimase seduto per un poco con le braccia conserte e la testa china sul petto, poi guardò quello che mi sembrava un orologio alla parete, e con una mano si percosse un ginocchio ossuto: — Ah! Eccoci! Siamo di nuovo nel 16 giugno dell’anno 1938. — E cominciò a slacciare le proprie cinghie di sicurezza.
Alzatomi dalla sedia, osservai meglio l’”orologio”, scoprendo che, oltre alle normali lancette, conteneva alcuni piccoli cronometri. Sbuffando, ne picchiettai il vetro con un dito, dicendo a Mosè: — Guarda! Questo cronometro mostra anche gli anni e i mesi! È un eccesso, tipico dei progetti governativi. Mi sorprende che non abbia anche piccoli automi con gli impermeabili e i cappellini per indicare le stagioni!
Poco dopo, arrivò la capitana Hilary Bond, con il giovane ufficiale che ci aveva raccolti a Richmond Hill, il quale ci fu presentato come Harry Oldfield. Così, l’ambientino divenne alquanto affollato.
— Ho ricevuto istruzioni che vi riguardano — annunciò Bond. — Ho l’incarico di scortarvi all’Imperial College, dove si svolgono le ricerche sulla guerra di dislocamento cronotico.
Non formulai alcuna domanda, benché non avessi mai sentito parlare di quella università.
— Ecco… — disse Oldfield, che portava una cassetta contenente alcune maschere antigas e diverse paia di spallacci metallici. — Conviene che indossiate questi…
Con disgusto, Mosè prese una maschera antigas: — Non vi aspetterete certo che infili la testa in quest’oggetto bizzarro!
— Deve farlo — disse ansiosamente Filby, che già si stava applicando la maschera al viso dalle guance flosce. — Dobbiamo percorrere un breve tragitto all’aperto, e non è sicuro: non è affatto sicuro!
— Suvvia… — dissi a Mosè, prendendo con torva risolutezza una maschera e un paio di spallacci. — Temo proprio che non siamo più nella nostra epoca, vecchio mio.
Sebbene fossero pesanti, gli spallacci si applicarono agevolmente alla giacca. La maschera, invece, si rivelò molto scomoda, anche se si adattava bene senza essere troppo stretta. Gli occhiali rotondi si appannarono subito, mentre la gomma e il cuoio non tardarono a raccogliere il sudore. Dichiarai: — Non mi ci abituerò mai.
— Spero che non rimarremo qui tanto a lungo da doverci abituare — sibilò Mosè, con veemenza, la voce soffocata dalla maschera.
Guardai Nebogipfel, che oltre al ridicolo abito da studente indossava una maschera grottesca, di alcune misure troppo grande per lui: quando muoveva la testa, la scatola portafiltri oscillava come una proboscide. Gli accarezzai la testa: — Così, almeno, ti mescolerai alla folla, Nebogipfel.
Il Morlock si astenne dal replicare.
Finalmente, uscimmo dal ventre metallico del Raglan, verso le due pomeridiane di una luminosa giornata estiva, con il sole che ravvivava i colori cupi del corazzato. Gli occhiali mi si appannarono di nuovo e il facciale mi si riempì subito di sudore, suscitando in me un gran desiderio di togliere la maschera pesante e aderente.
Il cielo, immenso e azzurro cupo, era sgombro di nubi, anche se qua e là si scorgevano esili strisce e volute bianche: tracce di vapore o di cristalli di ghiaccio, incise nel cielo. A un’estremità di una scia scorsi uno scintillio: forse il metallo di una macchina volante che luccicava al sole.
Il corazzato sostava in una Petersham Road molto diversa da quella del 1873, e persino da quella del 1891. Riconobbi molte case della mia epoca: vidi anche la mia, oltre una ringhiera arrugginita e coperta di verderame. I giardini e le aiuole erano stati sostituiti da campi in cui si coltivava un vegetale che non conoscevo. Notai inoltre che parecchi edifici erano molto danneggiati: di alcuni restavano soltanto le mura esterne e cumuli di macerie; altri erano anneriti e sventrati dagli incendi; altri ancora erano interamente crollati. Anche la mia casa era devastata, e il laboratorio era demolito. A giudicare dalla vegetazione cresciuta all’interno di molti fabbricati, i danni non erano recenti: il muschio e le erbacce tappezzavano i resti delle stanze e dei corridoi, l’edera pendeva sulle finestre in festoni simili a tende bizzarre.
Neppure il bosco sul versante che scendeva al Tamigi era indenne: si vedevano fusti caduti, alberi dai rami spezzati, tronchi anneriti, e così via: sembrava che fosse passato un uragano, oppure un incendio. Il molo era intatto, ma del ponte di Richmond restavano soltanto i piloni, anneriti e spezzati. Anche i prati delle rive in direzione di Richmond erano stati sostituiti dalle strane coltivazioni che mi erano ignote. Sul fiume stesso galleggiava una schiuma scura.
Intorno non si vedeva nessuno: né persone, né veicoli. Le erbacce spuntavano dalla pavimentazione della strada. Non si udivano risa né grida di bambini che giocavano, e neppure voci di persone, o di cani, o di cavalli, e nemmeno canti di uccelli.