Nulla restava della gaiezza che un tempo aveva caratterizzato i pomeriggi di giugno in quei dintorni: il lampeggiare dei remi, le risa dei gitanti in barca sul fiume…
Tutto era scomparso, in quell’anno lugubre, e forse per sempre. Richmond era un luogo deserto e morto. «Rammentai le rovine splendide del mondo paradisiaco dell’anno 802.701. Avevo creduto che esso fosse ormai lontano da me: non avrei mai immaginato di trovare la mia patria in condizioni persino peggiori.
— Gran Dio — esclamò Mosè. — Quale catastrofe! Quale distruzione! L’Inghilterra è forse abbandonata?
— Oh, no — rispose allegramente Oldfield. — Semplicemente, le campagne non sono più sicure. Ci sono i gas e le torpedini aeree: la popolazione si è ritirata nelle Cupole. Capite?
— Ma è tutto distrutto — protestai. — Che cosa ne è stato dello spirito del nostro popolo, Filby? Dov’è finita la volontà di ricostruzione? Ricostruire sarebbe possibile…
Allora Filby mi posò una mano guantata su un braccio: — Un giorno, quando questa guerra terribile sarà finita, ricostruiremo ogni cosa, e tutto tornerà come prima. Per il momento, tuttavia… — La sua voce si ruppe, e io avrei voluto vedere la sua espressione. — Venite… Conviene mettersi al riparo.
Allontanandoci dal Raglan, ci affrettammo a percorrere la strada in direzione del centro cittadino: Mosè, Nebogipfel e io, con Filby e i due militari. I nostri compagni del 1938 camminavano curvi, lanciando continuamente occhiate nervose al cielo. Di nuovo notai che Bond zoppicava vistosamente con la gamba sinistra.
Gettai uno sguardo nostalgico al corazzato perché conteneva la mia macchina del tempo: il mio unico mezzo per sfuggire al dispiegarsi dell’incubo della molteplicità della storia, e per tornare nella mia epoca. Tuttavia sapevo di non avere, almeno per il momento, nessuna possibilità di recuperarla: non potevo fare altro che attendere gli eventi.
Percorremmo Hill Street, prima di svoltare in George Street, priva della vivacità e dell’eleganza che avevano caratterizzato la strada di negozi della mia epoca. I grandi magazzini, come Gosling’s e Wright’s, erano chiusi da tempo: persino le tavole che sigillavano le vetrine erano sbiadite da anni di esposizione al sole. Una vetrina di Gosling’s era stata forzata in un angolo, evidentemente da alcuni saccheggiatori, i quali vi avevano praticato un’apertura che sembrava dovuta al morso di un ratto di dimensioni umane. Passammo dinanzi a una tettoia bassa, con il tetto inclinato, accanto alla quale stava una colonnina a strisce gialle e nere, dalla pittura tutta screpolata, con una vetrinetta infranta.
— Era un rifugio contro le incursioni aeree — spiegò Filby, in risposta alla mia domanda. — Appartiene a uno dei primi modelli, del tutto inadeguati: se l’esplosione avveniva frontalmente… Be’! La colonnina era una stazione di pronto soccorso, equipaggiata con respiratori e maschere. Si usavano prima che iniziasse il grande esodo nelle Cupole.
— Incursioni aeree… Non è certo un mondo felice, questo, che ha dovuto coniare termini del genere…
— I tedeschi — sospirò Filby — dispongono di torpedini aeree. Si tratta di macchine volanti capaci di volare per duecento miglia, sganciare una bomba, e tornare! Sono interamente meccaniche: non hanno alcun bisogno d’intervento umano. È un mondo di portenti, questo, perché la guerra fornisce stimoli vigorosi all’ingegno umano. Ti piacerà, vedrai!
— I tedeschi… — ripeté Mosè. — Non abbiamo mai avuto altro che guai, dai tedeschi, fin dall’avvento di Bismarck… È ancora vivo quel vecchio furfante?
— No. Però ha lasciato successori capaci — rispose torvamente Filby.
Non avevo nulla da commentare. Dal mio punto di vista, ormai tanto diverso da quello di Mosè, persino un bruto come Bismarck non sembrava giustificare neppure la perdita di un solo essere umano.
Con frasi spezzate, ansimando, Filby mi parlò delle altre prodigiose e gigantesche macchine da guerra di quell’epoca ottenebrata, che immaginai stessero devastando i mari e le pianure d’Europa: per esempio, i sommergibili progettati appositamente per la guerra chimica, dotati di autonomia pressoché illimitata, ciascuno equipaggiato con sei missili e una provvista formidabile di bombe a gas; e i corazzati di diverso tipo, capaci di spostarsi sottoterra o di navigare sia in emersione che in immersione. A tutto ciò si opponevano sbarramenti ugualmente formidabili di mine e di artiglierie d’ogni genere.
Evitai lo sguardo di Nebogipfel, giacché non ero in grado di sopportare il suo giudizio. Non si trattava, infatti, di un territorio nell’Interno della Sfera, popolato da lontani discendenti della mia stirpe, non più umani, bensì del mio mondo e della mia specie, in preda alla follia bellica. Quanto a me, conservai almeno in parte il punto di vista che avevo sviluppato nell’Interno della Sfera. Sopportavo a stento di vedere il mio paese abbruttito da quella follia, e i commenti di Mosè, viziati dai preconcetti meschini della sua epoca, mi addoloravano. D’altronde, non potevo certo attribuire la responsabilità a lui! Eppure m’inquietava pensare che la mia stessa immaginazione fosse stata un tempo tanto limitata, tanto malleabile.
2
Un viaggio in treno
Giungemmo a una rozza stazione ferroviaria, diversa da quella, che avevo conosciuto nel 1891, sulla linea che da Richmond andava a Waterloo, passando per Barnes: era lontana dal centro cittadino, a breve distanza da Kew Road. Inoltre, era ben strana, come stazione: non aveva biglietterie, era priva d’insegne, la banchina era una spoglia striscia di cemento. Una nuova linea era in costruzione. Ci attendeva un treno composto da una sola carrozza, trainata da una locomotiva sciatta e scura, priva di luci e persino dei contrassegni della compagnia ferroviaria, la quale tetramente eruttava vapore dalla caldaia sporca di fuliggine.
Nell’aprire la porta della carrozza, che era pesante, munita tutt’intorno di una guarnizione in gomma, Oldfield, i cui occhi erano visibili attraverso gli occhiali, dardeggiò occhiate tutt’ intorno: in un soleggiato pomeriggio del 1938, Richmond non era un luogo sicuro.
La carrozza, priva di qualunque ornamento, dipinta di un marrone spento, uniforme e anonimo, conteneva soltanto file di dure panche lignee senza imbottitura. I finestrini, chiusi, potevano essere schermati con le tendine.
Piuttosto goffamente, prendemmo posto gli uni di fronte agli altri. In quella giornata di sole, un caldo soffocante regnava all’interno della carrozza.
Appena Oldfield ebbe richiuso la porta, il treno partì con uno scossone.
— Evidentemente siamo gli unici passeggeri — mormorò Mosè.
— Be’, è uno strano treno — commentai. — Scarseggia alquanto di comodità, eh, Filby?
— Quest’epoca non offre molto in fatto di comodità, vecchio mio.
Per alcune miglia, attraversammo una campagna desolata simile a quella che circondava Richmond. Il paese, occupato quasi interamente dalle coltivazioni agricole, era deserto, a parte i pochi contadini che si scorgevano qua e là, al lavoro nei campi. Avrebbe potuto essere un paesaggio del quindicesimo secolo, anziché del ventesimo, se non fosse stato per le case bombardate e diroccate, nonché per i rifugi antiaerei, simili a giganteschi carapaci in cemento, semisepolti. Le zone intorno ai rifugi erano pattugliate da soldati armati, che guardavano trucemente il mondo attraverso gli occhiali delle maschere antigas, simili a musi d’insetti, come se sfidassero i profughi ad avvicinarsi.
Nei pressi di Mortlake, vidi quattro uomini impiccati ai pali del telegrafo lungo la strada: i cadaveri lividi e flosci erano stati evidentemente straziati dagli uccelli. Allorché gli dissi quanto mi sembrasse orribile lo spettacolo che lui stesso e i militari non avevano neppure notato, Filby volse gli occhi acquosi in quella direzione, mormorando qualcosa a proposito del fatto che senza dubbio quei disgraziati erano stati sorpresi a rubare rape svedesi, o qualcosa del genere.