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Per un poco, i miei due compagni seguitarono ad argomentare su quel problema, finché li interruppi: — Basta così. Per amore di discussione, riconosco la validità del vostro punto di vista. Ma quale importanza ha in rapporto alla nostra situazione?

— Esiste, anzi, esisterà — rispose Nebogipfel — una nuova filosofia, chiamata l’interpretazione della molteplicità dei mondi della meccanica quantistica. — Questa frase enigmatica, pronunciata dalla strana voce aliena del Morlock, mi fece correre una serie di brividi lungo la spina dorsale. — Devono trascorrere ancora dieci o vent’anni prima della pubblicazione degli studi fondamentali: ricordo il nome di Everett…

— È così — riprese Mosè, — Supponi di avere una particella che può stare soltanto in due luoghi: qui o là, diciamo. E a ciascun luogo è associato un certo numero di probabilità. È chiaro? Osservando con il microscopio, scopri che la particella si trova qui…

— Secondo la concezione della molteplicità dei mondi — spiegò Nebogipfel — la storia si divide in due allorché si compie un esperimento del genere. Nell’altra storia, esiste un altro osservatore, che ha appena scoperto l’oggetto là, anziché qui.

— Un’altra storia?

— Tanto reale e coerente quanto questa — sorrise Mosè. — Esiste un altro osservatore: anzi, un numero infinito di osservatori, che prolificano come conigli in ogni momento!

— È spaventoso — osservai. — Credevo che due fossero già più che sufficienti. Però… Ascolta, Nebogipfel… Non ce ne accorgeremmo, se venissimo scissi in questo modo?

— No, perché qualunque misurazione, nell’una o nell’altra storia, avverrebbe dopo la scissione. Sarebbe impossibile misurare le conseguenze della scissione medesima.

— Si potrebbe individuare l’esistenza di altre storie? Oppure, potrei recarmici, per incontrare un altro degli infiniti gemelli che secondo voi ho?

— No — affermò Nebogipfel. — È del tutto impossibile. A meno che… — Sì?

— A meno che qualche elemento della meccanica quantistica si dimostri falso.

— Sicuramente — disse Mosè — capisci perché questi concetti possono aiutarci a comprendere i paradossi che abbiamo scoperto. Se davvero può esistere più di una storia…

— Allora è facile affrontare le violazioni della causalità — continuò Nebogipfel. — Consideriamo la seguente ipotesi… Tu ritorni nel passato, munito di un’arma, e ammazzi Mosè. — Questi, nell’ascoltare, impallidì un poco, ma il Morlock non se ne curò. — Questo sarebbe un classico, semplicissimo, paradosso causale. Se morisse, Mosè non costruirebbe la macchina del tempo, non diventerebbe te, quindi non potrebbe tornare nel passato a compiere l’omicidio. Ma se l’omicidio non fosse commesso, Mosè costruirebbe la macchina e temerebbe nel passato a uccidere se stesso, e allora non costruirebbe la macchina, e l’omicidio non potrebbe essere commesso, e…

— Basta così — interruppi. — Abbiamo capito, credo.

— Sarebbe un fallimento causale patologico — concluse Nebogipfel. — Un circolo vizioso interminabile. Ma se il concetto della molteplicità dei mondi è corretto, allora non esiste nessun paradosso. La storia si divide in due: in una, Mosè sopravvive; nell’altra, muore. Tu, come viaggiatore temporale, sei semplicemente passato dall’una all’altra.

— Capisco — risposi, sbalordito. — E sicuramente il fenomeno della molteplicità dei mondi è proprio ciò a cui abbiamo assistito tu ed io, Nebogipfeclass="underline" abbiamo già osservato lo svolgimento di diverse versioni della storia… — Tutto ciò mi rassicurò enormemente: per la prima volta, intravidi un barlume di logica nella tempesta di storie in conflitto che mi flagellava la mente da quando avevo compiuto il mio secondo viaggio nel tempo. Trovare una struttura teorica in grado di spiegare i fenomeni era tanto importante per me quanto lo sarebbe stato per una persona in procinto di annegare sentire il suolo solido sotto i piedi. Tuttavia, non riuscivo ancora ad immaginare quali applicazioni pratiche avremmo potuto trarne.

Inoltre, pensai che, se Nebogipfel aveva ragione, forse dopotutto non ero responsabile della distruzione di tutta la storia di Weena: forse, in un certo senso, quella storia esisteva ancora. Concepire questa possibilità mi sgravò un poco dal mio fardello di colpa e di sofferenza.

In quel momento, la porta della sala da fumo si aprì rumorosamente, e Filby entrò a precipizio, senza essersi lavato né rasato, indossando ancora una vecchia vestaglia: non erano nemmeno le nove del mattino.

— C’è una visita per te — annunciò Filby. — Quello scienziato del ministero dell’aria, di cui ha parlato Bond…

Spingendo indietro la sedia, mi alzai. Nebogipfel tornò ai suoi studi, e Mosè, con la chioma ancora scompigliata, mi guardò. Lo osservai a mia volta con una certa preoccupazione, perché cominciavo a rendermi conto che la nostra condizione di dislocazione temporale lo stava mettendo a dura prova. — A quanto pare, debbo mettermi al lavoro — gli dissi. — Perché non mi accompagni? Sarei lieto di beneficiare della tua capacità di osservazione.

Senza allegria, Mosè sorrise: — La mia capacità di osservazione è la tua capacità di osservazione. Non hai bisogno di me.

— Però apprezzerei la tua compagnia. Dopotutto, questo potrebbe diventare il tuo futuro. Non credi che ti gioverebbe cominciare ad ambientarti?

Gli occhi profondi di Mosè parvero esprimere la stessa nostalgia di casa che era tanto intensa in me: — Non oggi. Ma ci sarà tempo… domani, forse. — Con un cenno della testa, Mosè salutò: — Sii prudente.

In quel momento, non seppi cos’altro dire.

Lasciai che Filby mi guidasse nell’atrio. Colui che attendeva sulla soglia della porta aperta era alto e sgraziato, con la zazzera brizzolata. Alle sue spalle, in strada, stava un soldato.

Quando mi vide, l’uomo di alta statura mi venne incontro con una goffaggine adolescenziale che contrastava con la sua corporatura. Mi salutò per nome, stringendomi la mano con una delle sue, forti e callose. Capii che era un pragmatico, uno sperimentatore: forse saremmo andati d’accordo.

— Sono felice di conoscerla: davvero felice. — L’uomo dimostrava una cinquantina d’anni. Aveva i lineamenti fini, il naso diritto, e, dietro gli occhiali dalla montatura metallica, lo sguardo schietto. — Sono assegnato al Diguerdiscron, il direttorio per la guerra di dislocamento cronotico del ministero dell’aria. — Era evidentemente un civile, perché, ad eccezione della maschera antigas e degli spallacci che tutti portavano, indossava un completo semplice, abbastanza sciatto, con la cravatta a strisce e la camicia ingiallita. Aveva su un risvolto un distintivo con un numero.

— Molto lieto — risposi. — Purtroppo, temo di non conoscerla…

— Perché mai dovrebbe conoscermi? Avevo soltanto otto anni quando il suo prototipo VDC partì per il futuro… Oh, mi scusi! VDC sta per “veicolo di dislocamento cronotico”. Immagino che si abituerà a tutti questi nostri acronimi… O forse no! Io non mi ci sono mai abituato. E si dice che lo stesso lord Beaverbrook stenti a rammentare tutti i direttori subordinati al suo ministero. Io non sono un personaggio noto: non sono per nulla famoso quanto lei. Fino a poco tempo fa ero soltanto vicecapo progettista alla Vickers-Armstrong Company, nel Bunker Weybridge. Quando le mie proposte sulla guerra cronotica iniziarono ad attirare l’attenzione, fui trasferito al quartier generale del Diguerdiscron, qui all’Imperiale. Senta… — aggiunse seriamente. — Sono davvero felice che lei sia qui. È stato un caso eccezionale a condurla fra noi. Credo che noi, ossia lei ed io, potremo forgiare una collaborazione in grado di cambiare la storia, e forse di porre fine una volta per tutte a questa dannata guerra!