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Vedendo che Mosè stava già aiutando Nebogipfel, il quale sembrava illeso benché gli fosse caduta addosso una scaffalatura, cercai Filby.

Il mio vecchio amico era stato fortunato: non era neppure caduto dalla sedia. Alzatosi, si recò alla finestra, il cui vetro si era spaccato.

Mi avvicinai: — Filby… Mio caro amico… — E gli passai le braccia intorno alle spalle curve. — Andiamo via…

Con gli occhi cisposi e lacrimanti, il viso incrostato di polvere, ignorandomi, Filby indicò fuori della finestra con un dito nodoso: — Guarda…

Nell’accostare la testa al vetro, mi misi le mani intorno al viso per annullare il riflesso delle lampade elettriche, quindi guardai fuori. Le lampade Aldis della chiacchieratrice erano spente, al pari di gran parte dell’illuminazione stradale. Parecchie persone fuggivano di corsa, terrorizzate; una bicicletta giaceva abbandonata; un soldato con la maschera antigas sparava in alto. E dall’alto, appunto, in lontananza, un raggio di luce intensa, in cui galleggiava freneticamente il pulviscolo, cadeva verticalmente a illuminare una sezione trasversale di strade e di case, un angolo di Hyde Park, e numerosi cittadini che si proteggevano il viso con le mani, abbacinati, battendo le palpebre come civette.

Quel raggio accecante era la luce del giorno: nella Cupola era stata aperta una breccia.

12

L’assalto tedesco a Londra

La porta principale, evidentemente spalancata dall’esplosione, pendeva dai cardini. Non vi era traccia dei soldati che avevano avuto l’incarico di sorvegliarci: neppure del fedele Puttick. Fuori, in Queen’s Gate Terrace, si udivano rumori di corsa, strilli e grida rabbiose, fischi acuti. Nell’aria indugiavano gli odori della polvere, del fumo e della cordite. La lama di luce diurna di giugno incombeva su tutto, enorme, splendente e tagliente. Sgomenta e terrorizzata, la popolazione di Londra, fino a quel momento protetta dalla Cupola come da un carapace, batteva le palpebre, simile a uno stormo di civette spaventate e abbacinate.

D’improvviso, Mosè mi percosse una spalla: — Questa confusione non durerà a lungo. È la nostra occasione: dobbiamo approfittarne subito.

— Benissimo. Io vado a chiamare Nebogipfel e Filby. Tu raccogli un po’ di equipaggiamento…

— Equipaggiamento? Quale equipaggiamento?

Quale pazzo si sarebbe mai avventurato nel tempo in vestaglia e ciabatte? Irritato e spazientito, ribattei: — Candele, fiammiferi… Tutto quello che riesci a trovare. E qualunque tipo di arma: andrà bene anche un coltello da cucina, se non troverai di meglio. — Freneticamente, pensai: Cos’altro? Cos’altro? Poi aggiunsi: — Canfora, se ce n’è, e indumenti intimi! Riempiti le tasche!

— Ho capito — annuì Mosè. — Riempirò una borsa, o una valigia. — Quindi rientrò, avviandosi verso la cucina.

Mi affrettai a tornare nella sala da fumo, dove Nebogipfel, indossato nuovamente il berretto da studente, stava raccogliendo i propri appunti in una cartellina di cartone. Quel povero vecchio diavolo di Filby, invece, era accoccolato sotto la finestra, con le ginocchia ossute raccolte contro il petto concavo, e le mani sollevate dinanzi al viso, come un pugile in guardia.

Mi accosciai accanto a lui: — Filby… Filby, vecchio mio…

Quando mi allungai a toccarlo, Filby si scostò, trasalendo.

— Devi venire con noi. Non sei al sicuro, qui.

— Al sicuro? E lo sarò invece con te, vero? Tu… Cospiratore! Ciarlatano! — Con gli occhi irritati dalla polvere, colmi di lacrime, luminosi come finestre, Filby pronunciò le ultime parole come se fossero gli insulti peggiori che si potesse immaginare. — Ricordo bene la volta che ci spaventasti a morte tutti quanti con quel dannato trucco dei fantasmi, a Natale! Be’, non mi lascerò ingannare un’altra volta!

— Cerca di ragionare! — sbottai, trattenendomi dallo scrollarlo. — Il viaggio temporale non è un trucco, e di sicuro non lo è questa vostra guerra disperata!

In quel momento mi sentii toccare una spalla. Con le dita pallide che sembravano splendere nei frammenti di luce diurna che entravano dalla finestra, Nebogipfel disse gentilmente: — Non possiamo aiutarlo.

Guardando Filby, con la testa china, il viso coperto dalle mani tremanti e chiazzate dalla discromia, capii che non poteva più sentirmi: — Non possiamo abbandonarlo così…

— Che cosa vorresti fare? Riportarlo nel 1891? L’epoca che ricordi non esiste più, se non in chissà quale dimensione irraggiungibile.

Con uno zainetto stracolmo in mano, Mosè irruppe nella stanza: — Sono pronto… — ansimò. Indossava gli spallacci e aveva la maschera antigas alla cintura. Poi guardò a turno Nebogipfel e me, che tardavamo a rispondere: — Che cosa succede? Che cosa state aspettando?

In silenzio, protesi una mano a stringere affettuosamente una spalla di Filby, il quale, se non altro, non si ritrasse: lo considerai, dunque, come un ultimo brandello di contatto amichevole fra noi.

Quella fu l’ultima volta che lo vidi.

Il quartiere di Londra in cui si trovava Queen’s Gate Terrace, ricordavo, era sempre stato relativamente tranquillo. Ma quando ci affacciammo a guardare in strada, vedemmo uomini e donne che, abbandonati i luoghi di lavoro e le case, fuggivano, correndo, incespicando, urtandosi a vicenda. Molti erano protetti dalle maschere antigas. Sui volti di coloro che non le portavano, vidi sofferenza, paura e disperazione.

Evidentemente le scuole erano state chiuse: si vedevano bambini ovunque, in gran parte abbigliati con le scialbe uniformi scolastiche, i volti nascosti dalle piccole maschere antigas. Vagavano per le strade, piangendo, alla ricerca dei genitori. Dinanzi al pensiero del dolore delle madri che cercavano i figli nella città trasformata in un immenso formicaio brulicante, la mia immaginazione si ritrasse.

Vi erano persone che non avevano rinunciato alle valigette e alle borsette: oggetti familiari, d’uso quotidiano, perfettamente inutili in quella circostanza. Altri trasportavano una parte dei loro averi in valigie gonfie da scoppiare, oppure in fagotti ricavati da tende o lenzuola annodate. Un uomo magro e intenso avanzava a fatica, spingendo una bicicletta con un mobile, sicuramente pieno di oggetti preziosi, in equilibrio sul manubrio e sul sellino. Con la ruota anteriore, urtava le schiene o le gambe dei fuggiaschi che lo precedevano, gridando: — Via! Via! Largo! Largo!

Nessuno cercava di riportare l’ordine. Sembrava che i poliziotti e i soldati fossero stati sopraffatti, oppure che si fossero sbarazzati delle uniformi e che a loro volta si fossero dati alla fuga. In piedi sopra un gradino, un membro dell’Esercito della Salvezza gridava: — Eternità! Eternità!

— Guarda… — indicò Mosè. — La Cupola è spaccata a oriente, in direzione di Stepney. E così, è smentita la tanto vantata invulnerabilità di questa volta meravigliosa!

Era vero. Sembrava che una bomba enorme avesse aperto una breccia immensa nel guscio di cemento, in prossimità dell’orizzonte orientale. Al di sopra della ferita, la Cupola si era spaccata come un uovo, fin quasi alla sommità, e la fenditura, simile a un nastro azzurro gigantesco e irregolare, rivelava il cielo. Per giunta, stava continuando a rompersi: pezzi di muratura, alcuni dei quali grandi come case, piovevano sulla parte sottostante della città, dove la gravità dei danni e il numero dei defunti dovevano essere elevatissimi.

Da lontano, a settentrione, giunse una serie di tuoni attutiti, simile al rumore dei passi di un gigante. Ovunque, l’aria era straziata dai lamenti delle sirene: ‘ulla, ‘ulla, ‘ulla; nonché dai gemiti immani delle crepe che continuavano ad aprirsi nella Cupola.