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Con il viso pallido alla luce della candela, Gödel interruppe: — Ho una moglie.

— Dov’è?

— L’ho perduta: non siamo riusciti a riunirci. Suppongo che si trovi ancora a Vienna. Non riesco a immaginare che le abbiano fatto del male per punire la mia defezione.

Queste ultime parole furono pronunciate con una sfumatura interrogativa, perciò compresi che, in quel momento estremo, quell’uomo supremamente logico mi chiedeva la più illogica delle rassicurazioni: — No, sono certo che…

Non riuscii a terminare la frase, perché, senza neppure il preavviso di un fischio nell’aria, un’altra granata esplose, più vicina di tutte le altre.

L’ultimo guizzo della candela rivelò, in uno squarcio lampeggiante di tempo congelato, la parete occidentale dell’officina che esplodeva verso l’interno, trasformandosi semplicemente, in meno di un istante, da superficie liscia e solida, in una nube turbinante di schegge e di polvere.

Poi sprofondammo nell’oscurità.

Mentre il veicolo ondeggiava, Mosè esclamò: — Dannazione — e io mi abbassai. Una tempesta letale di macerie investì la vettura temporale.

Sentii l’odore dolciastro di Nebogipfel che si avvicinava maggiormente, per afferrarmi una spalla con una mano morbida: — Chiudi il circuito.

Nel guardare fuori attraverso la feritoia, vidi soltanto oscurità, naturalmente: — E Gödel? — Poi gridai: — Professore!

Non vi fu risposta. Dall’alto giunse uno scricchiolio pesante e sinistro, seguito dal fragoroso precipitare di altre macerie.

— Chiudi il circuito! — ripeté Nebogipfel, con urgenza. — Non senti? Il tetto sta crollando! Ci schiaccerà!

— Vado a prenderlo — dichiarò Mosè. Nell’oscurità impenetrabile, si udì il rumore dei suoi passi mentre attraversava l’abitacolo. — Andrà tutto bene. Ho altre candele… — La sua voce si spense in fondo al veicolo. Con un crunch, Mosè balzò sul pavimento cosparso di macerie.

Allora un gemito immane, simile a un ansito grottesco, fu seguito da una scossa e da un grido di Mosè.

Mi girai, con l’intenzione di lanciarmi fuori a soccorrerlo, ma fui azzannato a una mano dalla piccola dentatura di una bocca morlock.

Quell’istante, in cui la morte mi si avvolgeva intorno, mentre ero sprofondato ancora una volta nella tenebra primeva, alla presenza del Morlock, con i denti di quest’ultimo conficcati nella carne, la pelliccia che mi sfiorava la pelle, fu insopportabile: ruggendo, tirai un cazzotto in piena faccia a Nebogipfel.

Tuttavia, questi non gridò: mentre il mio pugno gli affondava nelle carni cedevoli, lo sentii allungare un braccio sopra di me, verso il cruscotto.

L’oscurità svanì dai miei occhi, il fragore del cemento che crollava si spense nel silenzio, e così, ancora una volta, mi trovai a precipitare nel crepuscolo grigio del viaggio temporale.

16

Precipitare nel tempo

La vettura temporale ondeggiò. Invano tentai di aggrapparmi al sedile di guida: fui catapultato sul fondo, sbattendo la testa e le spalle contro una panca. La mano mi doleva per il morso di Nebogipfel, però in quel momento non vi badai.

Come un’esplosione silenziosa, una luce bianca invase l’abitacolo. Nebogipfel gridò. Il sangue che mi colava dalla fronte sulle guance mi offuscò la vista. Dalla porta e dalle feritoie filtrò nell’abitacolo ondeggiante una luce uniforme e pallida, che dapprima variò in intensità, poi, in breve tempo, si stabilizzò in un grigio sbiadito. Mi domandai se fosse avvenuta qualche nuova catastrofe: forse l’officina si era incendiata…

Poi mi accorsi che la luce era troppo stabile e troppo neutra: capii che eravamo già molto lontani dall’epoca dell’officina bellica.

La luce era naturalmente quella del giorno, sbiadita e resa informe dal sovrapporsi con le notti, troppo rapido perché l’occhio potesse cogliere l’alternanza. Stavamo davvero precipitando nel tempo: quel veicolo, benché rozzo e squilibrato, funzionava correttamente. Non ero in grado di stabilire se stessimo cadendo nel futuro o nel passato, ma di sicuro la vettura ci aveva già trasportati in un’epoca in cui la Cupola di Londra non esisteva più, o non esisteva ancora.

Spingendo con le mani, cercai di rialzarmi, però avevo le palme viscide di sangue, mio o del Morlock, quindi scivolai, ricaddi sul fondo duro, urtai di nuovo la testa contro la panca.

Fui sopraffatto dalla spossatezza, che m’intorpidì fino alle ossa. La sofferenza, accumulata durante il bombardamento e sedata dalla fuga affannosa, si ravvivò, moltiplicata. Con la testa posata sul fondo metallico, chiusi gli occhi. — A che cosa serve, comunque? — domandai, a nessuno in particolare. Mosè era morto, perduto, insieme al professor Gödel, sotto le tonnellate di macerie dell’officina distrutta. Non sapevo se Nebogipfel fosse vivo o morto, né me ne curavo. In quel momento, ero disposto a lasciare che la vettura temporale mi trasportasse nel futuro o nel passato, a suo piacimento, in eterno, fino a schiantarsi e a sbriciolarsi contro le mura dell’infinito e dell’eternità. Ero disposto a lasciare che tutto finisse, perché non potevo più fare nulla: — Non vale la pena — mormorai. — Non vale la pena.

Mi sembrò di essere toccato da mani morbide, il viso sfiorato da una pelliccia: protestai, e con le mie ultime forze respinsi quelle mani.

Infine, affondai in un’oscurità profonda, confortante, priva di sogni.

Fui destato da percosse violente.

Rotolai sul fondo dell’abitacolo. Quando l’oggetto soffice che avevo sotto la nuca si spostò, sbattei la testa contro l’angolo di una panca, e il dolore, improvvisamente rinnovato, mi riportò alla conoscenza. Con riluttanza, mi alzai a sedere.

Tutta la testa mi doleva, e così pure il corpo, come se fossi reduce da un estenuante incontro di pugilato o di lotta. Paradossalmente, però, il mio umore era un poco migliorato. Ero ancora ossessionato dalla morte di Mosè (un evento tragico, che col tempo avrei dovuto affrontare), ma dopo il breve periodo d’incoscienza di cui avevo beneficiato, ero in grado di distogliermene, come avrei distolto lo sguardo dalla luce accecante del sole, per dedicarmi ad altri problemi.

La fioca, perlacea commistione di giorno e di notte diffondeva ancora il suo crepuscolo nell’interno dell’abitacolo. Era molto freddo: mi accorsi di essere scosso dai tremiti, e vidi il fiato condensarsi in nebbia dinanzi al mio viso. Seduto sul sedile, Nebogipfel mi mostrava la schiena. Palpando con le dita bianche, esaminava gli strumenti del cruscotto rudimentale e i fili che pendevano dalla parte posteriore.

Mi alzai, vacillando, sia a causa dell’ondeggiare del veicolo, sia per le conseguenze di tutto ciò che mi era capitato nel 1938. Così, per sostenermi, mi aggrappai all’intelaiatura dell’abitacolo, scoprendo che il metallo era freddo come ghiaccio. Per sostenermi la testa, Nebogipfel aveva usato la sua giacca: la piegai e la posai sopra una panca. Anche la chiave inglese che Mosè aveva usato per aprire le fiasche della plattnerite era sul fondo: la raccolsi con la punta delle dita, perché era imbrattata di sangue.

I pesanti spallacci metallici, che ancora indossavo, mi disgustarono: me li strappai dagli indumenti, lasciandoli cadere rumorosamente.

Il fragore improvviso attirò un’occhiata di Nebogipfel, che aveva gli occhiali azzurri spaccati, nonché un occhio insanguinato e tumefatto: — Preparati — disse, con voce rauca.

— A cosa?

E l’abitacolo sprofondò nell’oscurità.

Avanzai incespicando, ancora una volta rischiando di cadere, mentre un freddo intenso assorbiva dall’aria, e dal mio corpo, il calore che restava. Di nuovo fui assalito da un’emicrania martellante. Con le braccia strette al busto, chiesi: — Dov’è finita la luce del giorno?