Nel buio oscillante, la voce di Nebogipfel suonò quasi aspra: — Durerà soltanto pochi secondi. Dobbiamo resistere.
Con la stessa rapidità con cui si era addensata, l’oscurità si dissipò, e il crepuscolo grigio filtrò di nuovo nell’abitacolo. Il freddo immane si attenuò un poco, tuttavia continuai a tremare violentemente. M’inginocchiai accanto a Nebogipfeclass="underline" — Che cosa sta succedendo? Cos’era?
— Ghiaccio. Stiamo viaggiando attraverso un’epoca glaciale. Dal settentrione, i ghiacciai si espandono a coprire la Terra, nonché il nostro veicolo, e poi si sciolgono. Credo di potermi azzardare a supporre che talvolta siamo coperti da trenta metri di ghiaccio.
Guardando attraverso una delle feritoie anteriori, vidi la valle del Tamigi trasformata in una tundra lugubre, dove sopravvivevano soltanto erba ispida, suffrutici purpurei di brugo che sembravano fiamme vivaci, e alberi sparsi. L’alternarsi dei loro cicli annuali era troppo rapido perché potessi seguirlo, ma gli alberi mi parvero appartenere alle specie più resistenti: querce, salici, pioppi, olmi, biancospini. Non vidi alcun vestigio di Londra: neppure spettri di fabbricati evanescenti. In tutto il paesaggio grigio non scorsi la minima traccia di presenza umana o di vita animale. Persino la conformazione delle colline e delle valli non mi parve affatto familiare, come se fosse stata interamente rimodellata dai ghiacciai.
Annunciato da una breve ondata di luce bianca, il ghiaccio immane ci sopraffece di nuovo. Nell’oscurità, imprecai. Avevo le dita delle mani, che tenevo sotto le ascelle, tutte intorpidite, come pure quelle dei piedi, tanto da farmi temere un inizio di congelamento. Quando si ritirarono di nuovo, i ghiacciai lasciarono una landa desolata molto simile a quella che avevo osservato poco prima, però di conformazione diversa. Le glaciazioni modificavano il paesaggio, tuttavia non ero in grado di capire se stessimo viaggiando nel futuro oppure nel passato. Sotto i miei occhi, macigni più alti di uomini scivolarono o rotolarono lentamente, come se migrassero: a quanto pareva, si trattava di qualche strana conseguenza dell’erosione.
— Per quanto tempo sono rimasto svenuto?
— Non molto: forse trenta minuti.
— E la vettura temporale ci sta trasportando nel futuro?
— Ci stiamo addentrando nel passato. — Quando Nebogipfel si volse a guardarmi, notai che, in conseguenza delle percosse che gli avevo inflitto, si muoveva goffamente, non più con l’armoniosità che gli era caratteristica. — Ne sono certo. Ho intravisto Londra regredire fino alle sue origini. A giudicare dagli intervalli fra le glaciazioni, direi che stiamo percorrendo decine di migliaia di anni al minuto.
— Forse dovremmo cercare di capire come si può fermare questa caduta a capofitto nel tempo. Se troveremo un’epoca tranquilla, adatta…
— Non credo che vi sia modo di fermare la vettura.
— Cosa?
In silenzio, Nebogipfel allargò le braccia: notai allora che aveva la pelliccia sul dorso delle mani cosparsa di brina. Subito dopo, sprofondammo di nuovo in un buio sepolcro di ghiaccio, talché la voce del Morlock mi giunse come fluttuando nell’oscurità: — Rammenta che questo è un veicolo sperimentale, rozzo e incompleto. Molti comandi e molti strumenti non sono collegati, mentre quelli che lo sono non sembrano funzionare. Anche se sapessimo come ricollegarli senza danneggiare la vettura, non vedo come potremmo uscire dall’abitacolo per eseguire le riparazioni necessarie.
Di nuovo il ghiacciaio lasciò il posto alla tundra rimodellata. Nebogipfel osservò il paesaggio dimostrando di esserne alquanto affascinato: — Pensa! I fiordi della Scandinavia non esistono ancora, mentre i laghi d’Europa e del Nord America, che si formeranno da depositi di ghiaccio sciolto, sono ancora fantasmi del futuro. Abbiamo già superato l’alba della storia umana. In Africa potremmo trovare gruppi di australopitechi: alcuni poco evoluti, altri gracili, altri carnivori, ma tutti bipedi e scimmieschi, con il cranio piccolo, i denti e le mascelle grossi.
Una solitudine immane e fredda mi avvolse. Mi ero già smarrito nel tempo in precedenza, però non avevo mai provato una sensazione d’isolamento tanto intensa. Era mai vero, poteva mai essere vero, che Nebogipfel ed io, a bordo della vettura temporale imperfetta, rappresentavamo le uniche fiamme di candela dell’intelligenza su tutto il pianeta?
— Dunque non possiamo governare il veicolo — ripresi. — Forse ci fermeremo soltanto quando giungeremo all’inizio del tempo…
— Dubito che succederà — interruppe Nebogipfel. — La plattnerite deve avere certi limiti, quindi non può consentirci di viaggiare nel tempo all’infinito: si esaurirà, prima o poi. E dobbiamo pregare che lo faccia prima di trasportarci attraverso l’ordoviciano e il cambriano: prima di condurci in un’epoca in cui non troveremo ossigeno da respirare.
— È proprio un’allegra prospettiva! E immagino che la situazione possa anche peggiorare.
— Come?
Mi alzai, per sgranchire le gambe intorpidite, poi sedetti sul freddo fondo metallico: — Non abbiamo provviste di nessun genere, né acqua né cibo, e siamo entrambi feriti. Non abbiamo neppure indumenti caldi! Per quanto potremo sopravvivere in questa gelida barca temporale? Alcuni giorni? Oppure anche meno?
Nebogipfel non rispose.
Poiché non sono tipo da sottomettermi facilmente al fato, mi dedicai per un poco a esaminare i comandi e i collegamenti, verificando in breve tempo che Nebogipfel aveva ragione: non era possibile modificare quel groviglio in maniera tale da rendere governabile il veicolo. Inoltre, non tardai ad esaurire le mie energie, già scarse, affondando di nuovo in una sorta di ottusa apatia.
Attraversata un’altra glaciazione, tanto breve quanto spietata, entrammo in un inverno lungo e tetro. Le nevicate e le gelate continuarono a susseguirsi, però l’epoca delle glaciazioni era ormai nel futuro. Millennio dopo millennio, il paesaggio cambiò ben poco: forse s’infittì la trama della vegetazione indistinta sulle colline. Un teschio immenso, che mi rammentò quello di un elefante, comparve al suolo non lontano dalla vettura temporale, scarnificato, scolorito, sgretolato, e rimase visibile per il tempo necessario a percepirne i contorni, ossia circa un secondo, prima di scomparire con la stessa repentinità con cui era apparso.
— Nebogipfel… A proposito della tua ferita al volto… Devi capire che…
— Cosa? — Con l’occhio illeso, Nebogipfel mi osservò. Notai che aveva perduto l’umanità superficiale acquisita da quando mi conosceva, per tornare a maniere interamente morlock. — Che cosa debbo capire?
— Non intendevo ferirti…
— Adesso non hai nessuna intenzione di nuocermi — ribatté Nebogipfel, con precisione chirurgica. — In quel momento, invece, lo volevi. Le scuse sono inutili, assurde. Tu sei ciò che sei. Apparteniamo a specie diverse. Siamo tanto differenti l’uno dall’altro, quanto entrambi lo siamo dagli australopitechi.
Dopo essermi sporcato ancora una volta i pugni di sangue morlock, mi sentivo un primitivo: — Mi fai vergognare!
— Vergognare? — Nebogipfel scosse la testa con un gesto breve, brusco. — È un sentimento privo di significato, in questo contesto.
Compresi ciò che intendeva dire: non avrei dovuto provare vergogna più di quanto avrebbe dovuto provarne un animale selvaggio della giungla. Se fossi stato assalito da una belva, mi sarei forse messo a discutere di etica con essa? Certamente no, giacché la belva, in quanto priva d’intelligenza, non poteva che comportarsi in un certo modo. Dunque, non avrei potuto fare altro che reagire alle sue azioni.
Ancora una volta avevo dimostrato a Nebogipfel di essere poco migliore dei bruti primitivi delle pianure africane, precursori dell’umanità in quell’epoca desolata.