Allorché rimossi per la prima volta la fasciatura e le stecche, scoprimmo che la gamba rotta mostrava segni di guarigione, ma Nebogipfel, tastandosi le articolazioni, dichiarò che non si erano saldate correttamente, e ciò non mi stupì affatto. Comunque, nessuno dei due seppe come rimediare. Dopo qualche tempo, Nebogipfel riuscì a camminare zoppicando per mezzo di una gruccia ricavata da un ramo.
Viceversa, l’occhio che gli avevo ferito quando lo avevo picchiato nell’officina delle vetture temporali, non guarì: con mio grande rammarico e profonda vergogna, rimase cieco.
Data la sua natura morlock, il povero Nebogipfel si trovò tutt’altro che a suo agio nella luce e nel calore del sole. Prese dunque l’abitudine di dormire durante il giorno, nella tenda che gli avevo costruito, e di vegliare durante la notte. Io, invece, mantenni le mie abitudini diurne, talché ciascuno di noi trascorse in solitudine la maggior parte delle ore di veglia. C’incontravamo a conversare al tramonto e all’alba, anche se debbo riconoscere che vivendo all’aperto, al caldo, faticando fisicamente, arrivavo molto stanco al calar del sole.
Pensai di servirmi delle grandi fronde di palma per costruire una capanna, ma nonostante tutti i miei sforzi, la tecnica che mi consentiva di procurare la frutta non si rivelò altrettanto efficace in quel caso, né disponevo di alcun mezzo per abbattere le palme stesse. Fui dunque costretto a mettermi a torso nudo e ad arrampicarmi come una scimmia. Una volta giunto alla chioma, fu questione di pochi momenti strappare le fronde e gettarle al suolo. Nella fresca aria del mare e nella luce del sole, ero diventato più sano e più robusto, ma non ero più giovane, quindi non tardai a scoprire che le mie capacità atletiche erano limitate: le arrampicate, insomma, mi spossavano.
Intrecciando le fronde procurate in questo modo, fabbricai il tetto per una capanna costruita con i rami caduti raccolti nella foresta. Sempre con le fronde di palma, confezionai un ampio cappello per Nebogipfel, il quale, seduto all’ombra, nudo, con quell’affare legato sotto il mento, aveva un aspetto davvero assurdo.
Quanto a me, che sono sempre stato di carnagione chiara, mi bastarono pochi giorni di esposizione al sole per ustionarmi e per suggerirmi di usare prudenza. Il naso, le braccia e la schiena mi si spellarono. Anche se mi lasciai crescere una barba folta a proteggere il viso, le labbra mi si coprirono di vesciche in una maniera assai spiacevole a vedersi. L’ustione peggiore, tuttavia, fu quella al cocuzzolo pelato. Presi l’abitudine di bagnarmi la pelle bruciata, nonché d’indossare sempre il cappello e ciò che restava della mia camicia.
Un giorno, dopo circa un mese di quella vita, mentre mi radevo servendomi di due pezzi di lamiera della vettura temporale, uno come lama e l’altro come specchio, mi resi conto improvvisamente di quanto fossi cambiato: nel viso abbronzato, scuro come mogano, gli occhi e i denti brillavano bianchi; lo stomaco era tanto piatto quanto lo era stato ai tempi dell’università. Inoltre, indossavo soltanto, con la più assoluta naturalezza, un cappello di fronde di palma e un paio di calzoni tagliati corti. Per il resto, me ne andavo in giro a torso nudo, e scalzo.
Mi volsi a Nebogipfeclass="underline" — Guardami! I miei amici mi riconoscerebbero a stento: sto diventando un aborigeno.
Il volto senza mento del Morlock rimase privo di espressione: — Sei un aborigeno. Non ricordi che questa è l’Inghilterra?
Quando Nebogipfel propose di recuperare il relitto della vettura temporale, non mi opposi: capivo che in futuro avremmo avuto bisogno di ogni minima quantità di materiale grezzo, soprattutto i metalli. Raccogliemmo così tutti i pezzi dei veicolo in una fossa scavata nella sabbia.
Soddisfatte tutte le necessità più urgenti della sopravvivenza, Nebogipfel dedicò gran parte del proprio tempo ai rottami. Sulle prime, non indagai troppo sulle sue attività, perché immaginavo che intendesse migliorare la nostra capanna, o magari costruire un’arma per la caccia.
Una mattina, però, quando si fu addormentato, esaminai il suo lavoro, scoprendo che aveva ricostruito la struttura della vettura temporale: aveva spianato il fondo, aveva fabbricato una gabbia con le nervature legate con pezzi di filo, e aveva persino ritrovato l’interruttore azzurro che aveva avuto la funzione di chiudere il circuito della plattnerite.
Al suo risveglio, lo affrontai: — Stai cercando di costruire una nuova macchina del tempo, vero?
— No. — Nebogipfel affondò i denti nella polpa di una noce di cocco. — Ne sto ricostruendo una.
— La tua intenzione è evidente: hai rifatto la struttura che conteneva il circuito della plattnerite.
— Come hai appena detto, è ovvio.
— Ed è anche inutile! — Mi guardai le mani callose e insanguinate, rendendomi conto che mi contrariava il fatto che il mio compagno sprecasse in tal modo le sue energie, mentre io faticavo per provvedere alla nostra sopravvivenza. — L’unica plattnerite che abbiamo è esaurita, e comunque è sparsa nella foresta. E non abbiamo nessun mezzo per produrne altra.
— Se costruiremo una macchina del tempo, forse non riusciremo ad abbandonare quest’epoca. Ma se non la costruiremo, sicuramente non riusciremo ad andarcene.
— Nebogipfel — brontolai, — credo che dovresti affrontare la realtà. Siamo isolati nelle profondità del tempo. Non riusciremo mai a procurarci altra plattnerite, qui, giacché non è una sostanza naturale. Non possiamo produrla, e nessuno ce ne porterà una quantità sufficiente, per il semplice fatto che nessuno ha la più pallida idea che siamo sperduti all’inizio del terziario!
Per tutta risposta, Nebogipfel leccò la polpa succulenta della noce.
— Bah! — Frustrato e irato, mi misi a camminare intorno alla capanna. — Converrebbe che tu dedicassi la tua intelligenza e le tue energie a fabbricarmi un’arma da fuoco, per poter abbattere qualcuna di quelle scimmie.
— Non sono scimmie: le specie più comuni sono miacis e chriacus.
— Be’, a qualunque specie appartengano… Bah! — Furibondo, me ne andai.
Nonostante le mie obiezioni, naturalmente, Nebogipfel perseverò nella sua paziente ricostruzione. In ogni modo, mi assistette in molti modi nel compito di assicurare la sopravvivenza ad entrambi. Dopo qualche tempo, finii per accettare la presenza della macchina rudimentale, scintillante e squisitamente inutile, posata sulla spiaggia paleocenica.
Dissi a me stesso che tutti gli esseri umani avevano bisogno di speranze, che conferissero scopo e ordine alle loro esistenze: e la macchina, tanto incapace di volare quanto una grande Diatryma, rappresentava l’ultima speranza di Nebogipfel.
4
Malattia e guarigione
Mi ammalai.
Divenni incapace persino di alzarmi dal rozzo giaciglio di fronde e di foglie secche che mi ero preparato. Costretto ad accudirmi, Nebogipfel espletò tale dovere senza troppe smancerie, ma con pazienza e con costanza.
Una volta, nel buio fitto della notte, mi accorsi, nel dormiveglia, che le dita morbide del Morlock mi palpavano il viso e il collo. Immaginando di trovarmi ancora una volta intrappolato nel basamento della Sfinge Bianca, circondato dai Morlock intenzionati a uccidermi, gridai. Allora Nebogipfel si affrettò a indietreggiare, ma non prima che riuscissi a colpirlo con un pugno al petto. Benché indebolito, dimostrai di avere ancora forza sufficiente per atterrarlo.
Ciò fatto, ricaddi, spossato, nell’incoscienza.
Allorché mi ridestai, Nebogipfel era di nuovo accanto a me, pazientemente intento a cercare di farmi inghiottire un sorso di zuppa di molluschi.