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Sulla spiaggia, dopo parecchi esperimenti e uno spreco considerevole di materiale, imparai come spaccare la selce lungo le venature e come affilarla. Nel lavorare, mi sentivo goffo e inesperto. Avevo sempre osservato con grande meraviglia le punte di freccia e le lame di scure esposte nelle bacheche dei musei, ma soltanto dopo avere provato personalmente a fabbricarle mi resi conto di quale abilità e quale intuizione tecnica avessero posseduto i nostri progenitori dell’età della pietra.

Finalmente, riuscii a fabbricare una lama che mi soddisfacesse. Servendomi di strisce di pelle, la fissai a un corto manico di legno ricavato da un ramo, quindi m’incamminai, entusiasta, verso la foresta.

Meno di un quarto d’ora più tardi tornai con la scure spezzata: si era spaccata al secondo colpo, scalfendo a malapena la corteccia dell’albero che avevo scelto.

In seguito a un altro breve periodo di sperimentazione, tuttavia, riuscii a fabbricare una scure adeguata, che mi consentì di abbattere alcuni alberelli diritti.

Scelsi per la nuova capanna un luogo presso la spiaggia, inaccessibile all’alta marea e ai possibili straripamenti del ruscello. Impiegai parecchio tempo a scavare fondamenta abbastanza profonde, ma alla fine costruii una solida palafitta, alta circa un metro. La piattaforma era tutt’altro che piana, ma mi proponevo d’imparare a costruire tavole decenti, prima o poi. Comunque, allorché mi ci coricai, la sera, essa mi parve sicura, tale da porre me e il mio compagno al riparo dai pericoli del suolo. Quasi desiderai che un’altra tempesta si abbattesse su di noi, per mettere alla prova la mia nuova creazione.

Servendosi di una piccola scala che avevo costruito per lui, Nebogipfel trasportò sulla palafitta i pezzi della vettura temporale e ne riprese ostinatamente l’assemblaggio.

Mentre passeggiavo nella foresta, un giorno, mi accorsi che, da un ramo basso, mi osservava un paio di occhi luminosi.

Rallentai, poi, badando a non compiere movimenti bruschi, imbracciai l’arco che portavo appeso alla schiena.

L’essere che mi scrutava con occhi sospettosi, lungo circa dieci centimetri, sembrava un lemure minuscolo. Aveva la coda e il muso da roditore, con grossi incisivi sporgenti e le zampe munite d’artigli. Se non era tanto intelligente da credere di potermi indurre, mediante la propria immobilità, a ignorarmi, allora era tanto stupido da non rendersi conto che ero pericoloso.

Fu l’affare di un attimo incoccare una freccia e scagliarla.

Con la pratica, avevo imparato a cacciare. Ottenevo risultati discreti con la fionda e con le trappole, ma con l’arco ero molto meno bravo. Avevo costruito frecce decenti, ma non ero ancora riuscito a trovare, per l’arco, un legno che fosse dotato della flessibilità adeguata. Di solito, nel tempo che impiegavo a incoccare goffamente la freccia, le prede, divertite dalle mie stramberie, riuscivano a scappare al riparo senza difficoltà alcuna.

Invece il piccolo lemure rimase ad osservare con curiosità spiccata la freccia storta che gli volava contro, indecisa. Per una volta, mirai giusto: la punta di selce inchiodò il corpicino all’albero.

Tomai da Nebogipfel fiero della mia preda, perché i mammiferi ci erano molto utili, non soltanto per la carne che ci fornivano, bensì anche per la pelliccia, i denti, il grasso e le ossa.

In silenzio, attraverso le fessure sottili della maschera, Nebogipfel osservò Tesserino simile a un roditore.

— Forse dovrei cacciarne altri — dichiarai. — Ho avuto l’impressione che questo animaletto si sia reso conto di essere in pericolo soltanto quando era ormai troppo tardi. Povera bestia!

— Sai cos’è?

— Dimmelo tu.

— Credo che sia un Purgatorius.

— Vale a dire?

— È un primate — spiegò Nebogipfel, lasciando trapelare un certo divertimento. — È il più antico che si conosca.

Imprecai: — Credevo che fosse finita, e invece… Persino nel paleocene non si può evitare d’incontrare parenti! — Esaminai il cadaverino. — Dunque questo è l’antenato della scimmia, dell’uomo e del Morlock! È l’insignificante, minuscolo seme da cui germoglierà una quercia che getterà la sua ombra opprimente su altri mondi oltre a questo… Mi chiedo quanti individui, quanti popoli, quante specie, sarebbero stati generati da questo esserino, se non l’avessi ucciso… Ancora una volta, forse, ho distrutto il mio stesso passato!

— Non possiamo fare a meno d’interagire con la storia, tu ed io — rispose Nebogipfel. — Con ogni nostro respiro, con ogni albero che tu abbatti, con ogni animale che uccidiamo, creiamo un nuovo mondo nella molteplicità dei mondi. È semplicemente così, ed è inevitabile.

Dopo tale rivelazione, non ebbi il coraggio di macellare il povero, piccolo primate, perciò andai a seppellirlo nella foresta.

Un giorno, decisi di risalire il ruscello verso le sue sorgenti, addentrandomi nel paese, ad occidente.

Partii all’alba. Lontano dalla costa, gli odori del sale e dell’ozono svanirono, sostituiti da quelli, caldi e umidi, della foresta di dipterocarps, fra cui era soverchiarne il profumo dei fiori che crescevano fitti. Il cammino era difficile a causa del sottobosco denso. L’umidità aumentò tanto da impregnare il mio cappello di fibre intrecciate. Nell’aria densa, i rumori della foresta, il frusciare della vegetazione, i trilli e i suoni rauchi che si udivano sempre, assunsero una tonalità più grave.

Verso metà mattina, percorse due o tre miglia, giunsi nei pressi di Brentford, dove trovai un lago ampio e poco profondo, di cui il ruscello era uno degli emissari. Gli immissari erano alcuni altri ruscelli e torrenti. Intorno al lago isolato, gli alberi crescevano fitti, con i tronchi e i rami bassi coperti di rampicanti, fra cui la lagenaria e la luffa, che riconobbi. L’acqua, calda, era salmastra, perciò non mi azzardai a berla, ma il lago pullulava di vita. La superficie era coperta da gruppi di ninfee gigantesche, simili nella forma a bottiglie rovesciate, del diametro di circa un metro e ottanta, che mi rammentarono le piante che avevo visto una volta nella serra dei gigli d’acqua del Giardino Botanico Reale, a Kew. Per ironia, il luogo in cui sarebbe sorta Kew era a meno di un miglio da dove mi trovavo. Le foglie sembravano abbastanza rigogliose e robuste da sostenermi, tuttavia preferii non metterle alla prova.

In pochi minuti, con il fusto lungo e diritto di un alberello, improvvisai una canna da pesca. Avevo con me la lenza, e un amo ricavato da una lamiera della vettura temporale. Come esca, usai alcuni lombrichi.

Fui ricompensato, in breve tempo, da alcune stratte alla lenza. Sorrisi, immaginando l’invidia che avrebbero provato alcuni miei amici pescatori, come, ad esempio, il povero vecchio Filby, se avessero saputo che avevo scoperto quella riserva incontaminata.

Quella sera, accesi un fuoco e cenai ottimamente con pesce e tuberi alla brace.

Poco prima dell’alba fui destato da un verso strano. Mi alzai a sedere, guardando attorno. Il fuoco era quasi spento, il sole non era ancora sorto, e il cielo aveva quella sfumatura sovrannaturale d’azzurro acciaio che prefigurava il nuovo giorno. Nell’assenza di vento, neppure una foglia si muoveva. Una bruma densa gravava immobile sulla superficie del lago.

Sulla riva, a meno di cento metri di distanza, vidi uno stormo di uccelli dalle penne di colore marrone grigiastro e dalle zampe simili a quelle dei fenicotteri. Nell’acqua bassa lungo la sponda, camminavano lentamente, oppure stavano immobili su una zampa sola, come sculture squisite. Avevano la testa simile a quella delle anatre moderne, immergevano il becco fra le onde scintillanti, e lo muovevano, evidentemente alla ricerca di nutrimento.

Quando la bruma si alzò un poco a rivelare una parte più estesa del lago, scoprii che gli uccelli, successivamente identificati da Nebogipfel come Presbyornis, erano migliaia: formavano una grande colonia e si muovevano come spettri nella foschia vaporosa.