Il comandante Gibson spiegò di essere stato incaricato di compiere una spedizione esplorativa e di provenire da un campo base situato nell’interno, a circa un miglio. Mi sembrò strano che non ci presentasse i suoi due sottoposti. Tale piccola scortesia, provocata da un tacito ma evidente riconoscimento delle differenze di razza e di rango, mi sembrò del tutto assurda su quella spiaggia isolata del paleocene, quando in tutto il mondo esistevano soltanto pochissimi umani.
Comunque, ringraziai Gibson per avere salvato Nebogipfel, e lo invitai ad accompagnarci alla nostra palafitta per fare colazione con noi: — È là, presso la spiaggia — indicai.
Ombreggiandosi gli occhi con una mano, Gibson osservò la palafitta: — Be’, sembra… Ehm… Sembra proprio una costruzione solida.
— Solida? Direi! — risposi, prima d’incominciare un racconto lungo e piuttosto incoerente su come avevo costruito la palafitta ancora incompleta, di cui ero smodatamente fiero, e su come eravamo sopravvissuti nel paleocene.
Il comandante Guy Gibson ascoltò con le mani unite dietro la schiena e un’espressione d’intenzionale cortesia sul viso. I sepoy mi osservarono perplessi e sospettosi, senza allontanare mai le mani dalle armi.
Dopo qualche minuto mi resi conto, piuttosto tardivamente, del disinteresse di Gibson, perciò posi gradualmente fine alle mie chiacchiere.
Con allegria, Gibson osservò la spiaggia: — Credo proprio che ve la siate cavata notevolmente bene, qui: notevolmente. Suppongo che poche settimane di questa vita da Robinson Crusoe mi avrebbero fatto impazzire di solitudine. Voglio dire, i pub apriranno soltanto fra altri cinquanta milioni di anni!
Sorrisi alla battuta, anche se non la capii. Inoltre, dinanzi all’efficienza vivace ed elegante dell’ufficiale, mi sentii alquanto imbarazzato per l’orgoglio esagerato che suscitavano in me i nostri successi meschini.
— Tuttavia — proseguì Gibson, con gentilezza — non crede che vi converrebbe seguirci al corpo di spedizione? Dopotutto, siamo venuti fin qui per ritrovarvi. E disponiamo di viveri decenti, nonché di attrezzature moderne, e così via. — Lanciando un’occhiata a Nebogipfel, aggiunse, un po’ più dubbioso: — E il doc potrebbe fare qualcosa per questo poveraccio. Se qui c’è qualche oggetto di cui avete bisogno, potremo sempre tornare a prenderlo in seguito.
Naturalmente, non c’era nulla: pensai che non avrei mai più avuto bisogno di ripercorrere quelle poche centinaia di metri di spiaggia! Tuttavia mi rendevo conto che, con l’arrivo di Gibson e del suo reparto, il mio breve idillio era concluso. E nell’osservare il volto franco e pragmatico dell’ufficiale, compresi che non avrei mai potuto trovare le parole adatte per esprimergli quella mia sensazione di perdita.
Così, con i sepoy che ci precedevano, e Nebogipfel che si appoggiava al mio braccio, Gibson e io ci addentrammo nella foresta.
Lontano dalla costa, l’aria era calda e appiccicosa. Camminammo in fila indiana, con un sepoy in testa, l’altro in coda, e nel mezzo Gibson, Nebogipfel ed io. Per gran parte del tragitto, portai in braccio il debole Morlock. Anche se continuarono a lanciarci fosche occhiate sospettose, i due sepoy, dopo un poco, allontanarono le mani dalle fondine. Durante tutta la marcia, non dissero una sola parola a Nebogipfel, né a me.
La spedizione di Gibson proveniva dal 1944, ossia sei anni dopo la nostra partenza durante l’assalto tedesco alla Cupola di Londra.
— E la guerra continua ancora?
— Temo proprio di sì — rispose Gibson, torvo. — Naturalmente abbiamo risposto a quell’attacco brutale a Londra, facendolo pagare ai Tedeschi con gli interessi.
— Anche lei ha partecipato alla rappresaglia?
Nel camminare, Gibson abbassò lo sguardo, come involontariamente, ai nastrini che portava cuciti sul petto dell’uniforme. In quel momento non li riconobbi, sia perché non sono mai stato appassionato di cose militari, sia perché, in ogni caso, alcune decorazioni non erano ancora state inventate nella mia epoca. In seguito, però, scoprii che si trattava della decorazione per anzianità di servizio e della croce e barra al merito di aviazione: erano onorificenze davvero prestigiose, soprattutto per un militare tanto giovane.
Senza drammatizzare, Gibson spiegò: — Sì, ho partecipato a qualche bella missione, e sono molto fortunato ad essere qui a poterlo raccontare: un sacco di bravi ragazzi non lo sono stati altrettanto.
— E tali missioni hanno avuto successo?
— Direi di sì. Senza aspettare troppo a ricambiare il favore ai tedeschi, siamo andati ad annientare le loro Cupole!
— E le città sottostanti?
Il comandante mi osservò: — Lei che cosa ne pensa? Senza cupola, ogni città è pressoché indifesa rispetto agli attacchi dall’aria. Certo, si può sparare con gli ottantotto…
— Gli ottantotto?
— I tedeschi hanno artiglieria contraerea calibro ottantotto, molto utile anche come artiglieria da campo e contro i corazzati: una gran tecnica… Comunque, se il pilota riesce a sottrarre il bombardiere al fuoco di sbarramento, può sganciare tutto quello che vuole nel ventre di una città senza cupola.
— E quali sono i risultati, dopo sei anni di tutto questo?
— Immagino — scrollò le spalle Gibson — che non resti granché delle città, almeno in Europa.
Giunti, secondo la mia stima, nelle vicinanze di South Hampstead, sbucammo in una radura circolare, di circa un quarto di miglio di diametro, che non era affatto naturale: come dimostravano le ceppaie, la foresta era stata abbattuta. Squadre di fanti a torso nudo, muniti di seghe e di machete, stavano ampliando la radura. Il suolo umido, sgombro di sottobosco, era coperto da strati di fronde di palma calpestati.
In mezzo alla radura, quattro corazzati simili a quello che mi aveva trasportato dal 1873 al 1938 stavano immobili agli angoli di un quadrato di trenta metri di lato, con i portelli spalancati come bocche di animali assetati, le catene antimina che pendevano inutili dai tamburi anteriori, la blindatura mimetica verde e nera incrostata di escrementi e di foglie cadute. Tutt’intorno erano sparsi altri veicoli e altro equipaggiamento, inclusi alcuni corazzati leggeri, e piccoli pezzi di artiglieria montati su carrelli dalle solide ruote.
In quella località, nel 1944, come spiegò Gibson, era situata un’officina di riparazione e di manutenzione per corazzati temporali.
Allorché entrai nella radura insieme a Gibson, con lo zoppicante Nebogipfel appoggiato a me, tutti i soldati interruppero i lavori in cui erano impegnati, per fissarci con aperta e assoluta curiosità.
Al centro del quadrilatero protetto dai corazzati, da un palo dipinto di bianco pendeva, sgargiante, floscia e incongrua, la bandiera del Regno Unito. Gibson c’invitò a sedere sugli sgabelli pieghevoli accanto alla tenda più grande fra quelle che erano montate nel quadrilatero. Un soldato magro e pallido, che evidentemente sopportava male il caldo, uscì da un corazzato. Immaginai che fosse l’attendente di Gibson, perché questi gli ordinò di servirci un rinfresco.
Intanto, i soldati ripresero a svolgere i loro incarichi: nell’accampamento, come sempre in tutte le postazioni militari, le attività fervevano come in un alveare. Benché i soldati fossero discinti a causa del calore, la loro uniforme comprendeva diversi indumenti: copricapi flosci di feltro, avvolti in leggere sciarpe cachi che pendevano sul dietro, o cappelli, che Gibson definì di foggia australiana; camicie verde giungla, con spallacci pesanti del tipo che avevo visto e portato nel 1938; distintivi cuciti ai cappelli o alle camicie; bandoliere, giberne e fondine; calzoni con fasce alle caviglie.
Alla fiancata aperta di un corazzato lavorava un soldato, con la testa completamente racchiusa da un casco leggero munito di visiera, il quale indossava una tuta bianca, completa di guanti spessi. Immaginai che, in quel caldo, il poveretto si stesse sciogliendo, così vestito, ma Gibson mi spiegò che la tuta era di amianto e serviva a proteggerlo dalle fiammate dei motori.