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Il militare si spinse indietro il cappello: — Gran brutto pasticcio, eh, signore? — commentò, nel brusco accento tedesco dell’Inghilterra nordorientale.

Allora lo riconobbi: — Sei Stubbins, vero?

— Proprio io, signore. — Stubbins si volse per accennare alla spiaggia.

— Stavo cartografando in quella direzione. Ero a sei o a sette miglia, quando ho visto arrivare i crucchi. Appena ho veduto innalzarsi quella grande colonna di fuoco… Be’, ho capito cos’era successo. — Dubbioso, guardò in direzione dell’accampamento.

Spostai il peso da una gamba all’altra, nel tentativo di celare la fatica:

— Non possiamo tornare al campo. Ci sono ancora gli incendi, e Nebogipfel dice che le radiazioni sono molto pericolose.

— Chi?

Per tutta risposta, sollevai un poco il Morlock.

— Oh, lui… — Stubbins si grattò la nuca, con un raspare della chioma corta e irta.

— Non puoi fare nulla per aiutare i tuoi compagni, Stubbins… almeno per il momento.

Il soldato sospirò: — Be’, e allora, signore, che cosa facciamo?

— Credo che dovremmo allontanarci ancora lungo la spiaggia e cercare un rifugio per la notte. Non credo che correremo rischi: dubito che qualunque animale del paleocene sarebbe tanto poco saggio da aggredire gli umani, stanotte, dopo tutto quello che è successo. Ma forse converrà accendere un fuoco. Hai fiammiferi, Stubbins?

— Oh, sì, signore. — Il soldato si percosse un taschino, scuotendo rumorosamente una scatola di fiammiferi. — Non si preoccupi.

— Non mi preoccupo affatto.

Ripresi a camminare sulla spiaggia, benché le braccia mi dolessero in maniera quasi insopportabile e le gambe mi tremassero.

Notata la mia spossatezza, Stubbins, con silenziosa gentilezza, si mise la mitragliatrice ad armacollo e prese in braccio il Morlock svenuto. Era magro, ma molto robusto: parve portare Nebogipfel senza fatica.

Continuammo la marcia finché trovammo al bordo della foresta una radura adatta, dove dormimmo all’addiaccio.

12

Le conseguenze del bombardamento

La mattina successiva albeggiò serena e fresca.

Mi destai prima di Stubbins. Invece, Nebogipfel rimase privo di conoscenza. Mi recai alla spiaggia, fino alla battigia, mentre il sole s’innalzava al di sopra del mare dinanzi a me, già diffondendo un calore intenso. Si udivano gli schiocchi e i trilli prodotti dalla fauna della foresta, già assorta nelle sue piccole preoccupazioni. Una forma nera e liscia, che mi parve una razza, scivolò nell’acqua a poche centinaia di metri dalla riva.

In quei primi istanti del nuovo giorno, fu come se il mondo paleocenico fosse tanto vigoroso e indenne quanto era stato prima dell’arrivo di Gibson e del suo corpo di spedizione. Eppure la colonna di fuoco purpureo s’innalzava ancora dalla ferita al cuore della foresta, sino a un’altezza di oltre trecento metri, scagliando grumi di roccia o di terra incandescente, che tracciavano parabole luminose nell’aria. Al di sopra indugiava ancora la nube di polvere e di vapore a forma di ombrello, sfrangiata ai bordi a causa della brezza.

Facemmo colazione con acqua e con polpa di noci di cocco. Debole e avvilito, parlando con voce fioca e rauca, Nebogipfel consigliò a Stubbins e a me di non ritornare all’accampamento bombardato, sostenendo che, per quanto ne sapevamo, noi tre eravamo gli unici esseri umani superstiti nel paleocene, e dovevamo preoccuparci della nostra sopravvivenza. A suo parere, avremmo dovuto trasferirci ad alcune miglia di distanza e accamparci in qualche altro luogo adatto, al sicuro dalle radiazioni del carolinum.

Tuttavia, gli occhi di Stubbins, nonché le profondità stesse della mia interiorità, dicevano che agire così sarebbe stato impossibile per entrambi.

Finalmente, con una schiettezza che sopraffece la sua deferenza naturale, Stubbins dichiarò: — Io torno. Capisco quello che sta dicendo, signore, ma il fatto è che là potrebbero esservi feriti e moribondi. Semplicemente, non posso abbandonarli. — E si volse a me, con il viso onesto e sincero corrugato per la preoccupazione. — Non sarebbe giusto, vero, signore?

— No, Stubbins: non lo sarebbe affatto.

Fu così che, mentre il giorno era ancora giovane, Stubbins e io ripercorremmo la spiaggia in direzione dell’accampamento devastato. Il soldato vestiva ancora l’uniforme verde, che aveva superato pressoché indenne le traversie del giorno precedente. Io, naturalmente, portavo soltanto ciò che restava dei calzoni cachi che avevo indossato al momento del bombardamento. Avevo perduto persino gli stivali, quindi mi sentivo peculiarmente male equipaggiato. Non avevamo neppure una cassetta del pronto soccorso: soltanto la piccola quantità di bende e di unguenti di cui era fornito Stubbins. Però ciascuno di noi portava a tracolla cinque o sei gusci di noce di cocco pieni d’acqua, con cui avremmo forse potuto arrecare sollievo agli eventuali superstiti.

Dal luogo dell’esplosione proveniva un rumore cupo, continuo e monotono, simile al fragore di una cascata, che faceva tremare il suolo. Avevamo promesso a Nebogipfel di fermarci a un miglio dal cratere. Quando ciò avvenne, il sole era alto nel cielo. La nube letale a forma di ombrello gettava su di noi la sua ombra. La luminosità purpurea e cremisi prodotta dalla reazione perdurante macchiava la spiaggia dinanzi a me.

Ci bagnammo i piedi nel mare. Mi riposai le ginocchia e i polpacci dolenti, godendo del calore del sole sul viso. Per colmo d’ironia, la giornata rimase bella, con il cielo sereno e il mare immerso nella luce. Notai che la marea aveva già riparato in gran parte ai danni inflitti alla spiaggia dalle attività umane il giorno precedente: per esempio, le bivalvi si nascondevano di nuovo nella sabbia fuligginosa, e una tartaruga passò tanto vicino, sulla battigia, che avremmo potuto toccarla.

Mi sentii vecchissimo, incommensurabilmente stanco, per nulla in armonia con l’alba del mondo.

Lasciata la spiaggia, ci addentrammo timorosamente nell’oscurità della foresta devastata, con l’intenzione di girare intorno all’accampamento tenendoci alla distanza di sicurezza di un miglio. Bastava la più rudimentale conoscenza della geometria per calcolare che avremmo dovuto percorrere sei miglia prima di completare il cerchio tornando alla spiaggia. Sapevo però che sarebbe stato difficile, se non impossibile, tracciare una circonferenza precisa, quindi prevedevo che ci attendesse una marcia considerevolmente più lunga, di alcune ore in tutto.

Anche a quella distanza dal luogo dell’esplosione, molti alberi, che altrimenti sarebbero diventati piante secolari, erano stati sradicati e schiantati in un istante. Fummo dunque costretti a scavalcare tronchi carbonizzati e ad attraversare ammassi di fronde bruciate. Più lontano, si vedevano interi gruppi di dipterocarps spogli e anneriti, trasformati dalle fiammate in quelli che sembravano mazzi di fiammiferi bruciati. Dagli squarci aperti nella volta delle fronde, la luce del sole penetrava a fasci e cascate fino al suolo, eppure rimanevano zone d’oscurità e di penombra. La luce purpurea del carolinum diffondeva ovunque una sfumatura sinistra.

Naturalmente, gli animali superstiti, i mammiferi, gli uccelli e persino gli insetti, erano fuggiti, lasciando una quiete sovrannaturale, turbata soltanto dal fruscio dei nostri passi, oltre che dal respiro caldo e ininterrotto della conflagrazione.

Molti alberi caduti fumavano ancora, o rosseggiavano come braci. Per non scottarmi, mi fasciai d’erba i piedi, ricordando di avere fatto lo stesso per uscire dalla foresta che avevo incendiato nell’anno 802.701. Incontrammo numerosi corpi di animali rimasti coinvolti in una catastrofe che superava la loro comprensione. La decomposizione era già iniziata, diffondendo un fetore di morte.