Una volta, calpestai i resti putrefatti di quello che mi parve un planetetherium, e il povero Stubbins fu costretto ad aspettare mentre, con grugniti di disgusto, mi raschiavo i resti dell’animaletto dalla pianta del piede.
Dopo circa un’ora, trovammo un corpo curvo e immoto. Il fetore era tale che fui costretto a coprirmi il viso con il fazzoletto. Sul momento, ebbi l’impressione che quell’essere bruciato e sfigurato fosse un animale, forse una giovane Diatryma, ma Stubbins si lasciò sfuggire un’esclamazione. Affiancandomi a lui, vidi, all’estremità di un ramo annerito, una mano di donna che, per effetto di qualche bizzarra casualità, non era neppure lievemente ustionata: aveva le dita piegate come nel sonno, e un gioiello d’oro che luccicava all’anulare.
Il povero Stubbins, allontanatosi fra gli alberi, vomitò, mentre io mi sentivo sciocco, impotente e sgomento, là, nella foresta devastata, con i gusci pieni d’acqua a tracolla.
— E se fosse successo a tutti, signore? — chiese Stubbins. — Se fossero tutti… così? — Nel dir questo, non riuscì a guardare la salma, e neppure a indicarla. — E se non ci fosse nessun superstite? Se fossero tutti morti, bruciati… così?
Gli posai una mano sopra una spalla, cercando di attingere a una forza che non sentivo di possedere: — In tal caso, torneremo alla spiaggia e tenteremo di sopravvivere. Faremo del nostro meglio. Non abbiamo altra scelta, Stubbins. Ma non devi cedere, adesso: la nostra ricerca è appena incominciata.
Gli occhi del soldato sembravano bianchi, nel viso nero di fuliggine come un camino: — Ha ragione: non bisogna cedere. Faremo del nostro meglio: non c’è altra scelta. Eppure…
— Sì?
— Oh… Nulla. — Così dicendo, Stubbins si risistemò i gusci di noce ad armacollo, preparandosi a rimettersi in marcia.
Affinché capissi, non fu necessario che il soldato mi esprimesse il suo sentimento. Se il corpo di spedizione fosse stato sterminato, se noi due e il Morlock fossimo stati gli unici superstiti, allora, come anche Stubbins sapeva bene, non avremmo potuto fare altro che restare seduti nelle nostre capanne sulla spiaggia in attesa della morte. Poi, la marea avrebbe coperto le nostre ossa, e se fossimo stati fortunati avremmo lasciato qualche fossile, che forse, un giorno, dopo cinquanta milioni di anni, sarebbe stato trovato da qualche cittadino curioso intento a vangare in un orto o in un giardino di Hampstead o di Kew.
Sarebbe stato un destino lugubre e vano. Sicuramente, anche Stubbins si domandava quale fosse il meglio che si potesse trarre da un’esistenza simile.
In un silenzio tetro, ci allontanammo dal corpo carbonizzato della giovane donna.
Nella foresta, non avevamo nessun riferimento per calcolare il trascorrere del tempo: il sole sembrava immobile nel cielo, le ombre dei ceppi anneriti non sembravano accorciarsi né spostarsi. Ci sembrò di attraversare quella devastazione spaventevole per un tempo interminabile, ma in realtà fu forse soltanto un’ora più tardi che udimmo rumori di vegetazione schiantata provenire dalle profondità della foresta.
Sulle prime non vedemmo che cosa li provocasse. Attendemmo, trattenendo il fiato, Stubbins con gli occhi sgranati di paura, bianchi come l’avorio nella semioscurità.
Dall’ombra fra le piante carbonizzate, inciampando e sbattendo contro i ceppi, emerse un essere snello, evidentemente sofferente, e indubbiamente umano.
Gli corsi incontro con il cuore in gola, senza curarmi del sottobosco bruciato che si sfaldava sotto i miei piedi. Accanto a me corse Stubbins.
Era una donna, irriconoscibile con la testa e il busto anneriti dalle ustioni. Mi cadde fra le braccia con un sospiro soffocato, che parve di sollievo.
Nell’aiutarmi a farla sedere, addossata a un ceppo, Stubbins mormorò frasi spezzate d’incoraggiamento: — Non preoccuparti… Guarirai… Ti curerò io… — E continuò così, con voce strozzata.
Dell’uniforme della donna restavano soltanto brandelli anneriti. Le braccia erano ustionate, soprattutto nella parte inferiore degli avambracci.
Anche il viso, che doveva avere guardato l’esplosione, era ustionato, però era parzialmente illeso intorno agli occhi e alla bocca. Era evidente che, al momento della conflagrazione, la donna si era protetta il viso con le braccia.
Finalmente, la donna aprì gli occhi, che erano di un azzurro penetrante, poi dischiuse la bocca, esalando un sussurro da insetto. Reprimendo la ripugnanza e l’orrore suscitati in me dal naso e dalle orecchie sfigurati dalle fiamme, accostai un orecchio alle labbra.
— Acqua… — mormorò la sopravvissuta. — In nome d’Iddio… Acqua…
Era Hilary Bond.
13
Il racconto di Bond
Per alcune ore, Stubbins e io restammo con Hilary, facendole sorseggiare acqua dai gusci. Di quando in quando, Stubbins si allontanò per compiere brevi perlustrazioni circolari nella foresta, chiamando ad alta voce per attirare l’attenzione di altri eventuali superstiti. I medicinali di cui disponeva Stubbins, adatti a curare lesioni lievi come gli ematomi e i tagli, furono del tutto inadeguati per le ustioni di Bond, che erano tanto gravi quanto estese.
Debole, ma in pieno possesso delle sue facoltà, Hilary riuscì a fornirmi un resoconto coerente di ciò che aveva visto.
Dopo avermi lasciato alla spiaggia, si era addentrata il più possibile nella foresta, tuttavia si era trovata a non meno di un miglio dall’accampamento allorché il Messerschmitt vi era giunto.
— Ho visto cadere la bomba — sussurrò Bond. — Da come ardeva ho capito che era carolinum… Non avevo mai visto bombe come quella, ma ne avevo sentito parlare… Ho pensato che fosse finita per me… Sono rimasta paralizzata come un coniglio in preda al terrore… O come una pazza… Quando ho ripreso il controllo di me stessa, ho capito di non avere il tempo di gettarmi al suolo o dietro un albero… Ho alzato le braccia a proteggere il viso… Il lampo è stato accecante, di un’intensità sovrannaturale… Mi ha ustionata… È stato come se si spalancassero le porte dell’inferno… Ho sentito le guance sciogliersi… Ho visto la punta del naso ardere, come una candelina… È stata l’esperienza più… — Hilary s’interruppe, in preda a un accesso di tosse.
L’esplosione era stata “come un vento immane”. Catapultata all’indietro, Hilary era rotolata al suolo fino a sbattere contro un albero, quindi era svenuta.
Allorché aveva ripreso conoscenza, la colonna di fiamma cremisi e porpora s’innalzava dalla foresta come un demone, circondata dagli spiriti familiari del suolo fuso e del vapore. Tutt’ intorno, gli alberi erano schiantati e bruciati, anche se Bond si era trovata per puro caso abbastanza lontano dall’epicentro della conflagrazione per evitare i danni peggiori. Per giunta, non era stata colpita da rami caduti o da altri oggetti.
Si era toccata il naso, e ricordava di avere provato soltanto una curiosità appannata nel sentirsene staccare un pezzo.
— Non ho provato dolore, però… È stato molto strano… Anche se — aggiunse torvamente Bond — non ho tardato ad essere ricompensata, per questo…
Ascoltai in un silenzio lugubre, con il ricordo, vivo nella mente, della ragazza snella e piuttosto impacciata con cui avevo raccolto bivalvi, poche ore prima di quell’esperienza terribile.
In seguito, Hilary aveva dormito. Al risveglio, aveva trovato la foresta molto più buia, perché molti incendi si erano estinti. Per qualche ragione, la sua sofferenza si era attenuata, tanto da indurla a chiedersi se ciò fosse dovuto alla distruzione delle connessioni nervose.