Выбрать главу

Fra i superstiti, Hilary Bond era la più alta in grado. Così, non appena fu in grado di alzarsi dal suo giaciglio, assunse il comando, dimostrando una calma autorità. Spontaneamente, il nostro gruppo si sottopose a una sorta di disciplina militare, anche se molto semplificata, giacché i soldati superstiti erano soltanto tredici. Ebbi l’impressione che ritrovarsi in un contesto familiare fosse di notevole conforto ai militari, in particolare ai più giovani. Naturalmente, tale organizzazione non era destinata a durare. Se la nostra colonia avesse prosperato, creando una nuova generazione, allora una gerarchia di tipo militare non sarebbe stata desiderabile né praticabile. Per il momento, comunque, assolveva alle necessità, e tanto bastava.

I soldati, che avevano coniugi, genitori, amici, e persino figli, “a casa”, nel ventesimo secolo, dovettero abituarsi al fatto che nessuno di noi avrebbe potuto ritornarvi. Mentre ciò che restava loro dell’equipaggiamento militare si disfaceva lentamente nell’umidità della giungla, si resero conto che, in futuro, avrebbero potuto contare esclusivamente sui prodotti del loro lavoro e della loro ingegnosità, nonché sull’aiuto reciproco.

Sempre preoccupato dai pericoli delle radiazioni, Nebogipfel insistette affinché costruissimo un villaggio più lontano, lungo la costa. Sfruttando al meglio il veicolo a motore fin tanto che disponeva di combustibile, effettuammo alcune perlustrazioni. Alla fine, scegliemmo il delta di un fiume situato cinque miglia a sudovest del campo del corpo di spedizione, ossia, giudicai, nelle vicinanze di Surbiton: in futuro, la pianura alluvionale, fertile e irrigata, ci avrebbe consentito di sviluppare l’agricoltura.

Il trasferimento fu compiuto in maniera graduale, perché fu necessario trasportare parecchi feriti per gran parte del viaggio. Dapprima usammo il veicolo, la cui provvista di carburante, però, non tardò ad esaurirsi. Su insistenza di Nebogipfel, non lo abbandonammo, perché avrebbe costituito un’autentica miniera di gomma, di vetro, di metallo e di altri materiali. Così, per l’ultimo viaggio, lo spingemmo come una carriola sulla sabbia, carico di feriti e di provviste.

Mentre noi quattordici superstiti, laceri e rozzamente bendati, procedevamo faticosamente sulla spiaggia, pensai che un osservatore distaccato avrebbe difficilmente capito che eravamo, in quell’epoca, gli unici rappresentanti di una specie che in futuro avrebbe distrutto interi pianeti.

Nei pressi del villaggio, la foresta era pressoché indenne, ma ciò non bastò a farci dimenticare il bombardamento: di notte, ad oriente, si vedeva ancora la luce purpurea, che, secondo Nebogipfel, sarebbe rimasta visibile ancora per molti anni. Spesso, spossato dal lavoro quotidiano, sedetti alla periferia del villaggio, in disparte dalle luci e dalle conversazioni, ad osservare le stelle che si accendevano sopra il vulcano creato dall’uomo.

All’inizio costruimmo soltanto una fila di tettoie di rami e di fronde. Una volta assicurata una provvista costante e sufficiente di cibo e di acqua, ci dedicammo a un programma più ambizioso. Per prima cosa, concordammo di costruire una casa comune abbastanza spaziosa da ospitarci tutti in caso di tempeste o di altri disastri. Risolutamente, iniziammo la costruzione di un fabbricato simile a quello che avevo incominciato per me e per Nebogipfel, però di grandi dimensioni: una palafitta.

Non lontano dal fiume disboscammo un campo, affinché Nebogipfel potesse dirigere la coltivazione e la selezione dei vegetali indigeni, da cui si sarebbero sviluppate in futuro, con pazienza, molte piante utili. Per pescare, costruimmo una piroga.

Con molti sforzi, catturammo una famiglia di Diatryma, che chiudemmo in un recinto costruito appositamente. Gli uccelli fuggirono diverse volte, causando disastri nella comunità, tuttavia li ricatturammo ogni volta, e perseverammo nel tentativo di addomesticarli, perché allevarli allo scopo di ricavarne carne e uova era una prospettiva assai gradevole. Effettuammo persino alcuni esperimenti allo scopo di stabilire se fosse possibile indurli a trainare l’aratro.

Nei miei confronti, i coloni manifestarono una cortese deferenza, sia perché si confaceva alla mia età (com’ero il primo a riconoscere), sia perché avevo maggiore esperienza del paleocene. Ciò consentì che mi fosse affidato, all’inizio, l’incarico di dirigere alcuni progetti. In breve tempo, però, i giovani mi surclassarono, grazie alla loro inventiva, nonché all’esperienza, rapidamente accumulata, nel sopravvivere nella giungla. Non tardai a rendermi conto che manifestavano nei miei riguardi una certa divertita tolleranza. In ogni modo, continuai a partecipare con entusiasmo alle attività della colonia.

Quanto a Nebogipfel, rimase, abbastanza naturalmente, isolato all’interno della comunità di giovani umani.

Una volta guariti i feriti e i malati, e divenuta meno necessaria la sua opera, Nebogipfel trascorse gran parte del suo tempo lontano dal villaggio, visitando la nostra vecchia capanna, rimasta sulla spiaggia, alcune miglia a nordest, ed esplorando la foresta. Però non mi accordò la sua confidenza a proposito degli scopi delle sue perlustrazioni. Memore della vettura temporale a cui si era dedicato prima dell’arrivo del corpo di spedizione, sospettai che ne avesse ripreso la ricostruzione. Mi parve, tuttavia, che ciò fosse del tutto inutile, in quanto la plattnerite dei corazzati era stata distrutta dal bombardamento. In ogni modo, non cercai di ostacolare Nebogipfel nelle sue attività, perché giudicavo che fra noi tutti fosse il più isolato, il più privo della compagnia dei suoi simili, e dunque, forse, il più bisognoso di tolleranza.

16

La fondazione di Prima Londra

Nonostante l’esperienza terribile che avevano dovuto sopportare, i coloni erano giovani, avevano grandi capacità di recupero, e sapevano essere fiduciosi, risoluti, perseveranti. Poco a poco, una volta cessati i decessi provocati dalle radiazioni e una volta chiaro che non ci trovavamo in pericolo imminente di morire di fame o di essere travolti da una piena, riacquistammo, almeno in parte, l’allegria e la voglia di vivere.

Una sera, mentre le ombre dei dipterocarps si allungavano in direzione del mare, Stubbins mi trovò seduto, come al solito, alla periferia del villaggio, intento ad osservare la luce sinistra della bomba. Con una timidezza imbarazzante, mi chiese, sbalordendomi, se fossi disposto a partecipare a una partita di calcio. Replicare che non avevo mai giocato neppure una volta in vita mia non valse a nulla, così che mi ritrovai a camminare sulla spiaggia insieme a Stubbins verso il campo da calcio di cui erano stati rozzamente tracciati i confini nella sabbia. Le porte erano state fabbricate con gli avanzi della costruzione della casa comune. La palla” era una noce di cocco vuota. Otto fra uomini e donne erano pronta giocare.

Non mi aspetto di certo che la battaglia ostinata che seguì passi agli annali della storia sportiva. Il mio contributo fu trascurabile, tranne la riconferma dell’assoluta mancanza di coordinazione fisica che aveva trasformato i miei giorni di scuola in un’ordalia. Il più abile fra tutti fu di gran lunga Stubbins. Soltanto tre giocatori, inclusi lui ed io, erano sani, e io rimasi completamente sfinito dopo soli dieci minuti di gioco. Gli altri erano un’accozzaglia di feriti bendati, nonché di mutilati con o senza arti artificiali, ciò che fu, al tempo stesso, comico e patetico. Nondimeno, la partita fu giocata, finendo con il suscitare risa e grida d’incoraggiamento.

Mi sembrò che gli altri giocatori, sofferenti, smarriti, naufraghi in quell’epoca antica, fossero in realtà poco più che bambini.