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Mi chiesi allora quale specie fosse mai la nostra, capace di nuocere tanto alla sua stessa progenie.

Terminata la partita, lasciammo il campo, esausti ma sorridenti, e Stubbins mi ringraziò.

— Di nulla — risposi. — Sei un ottimo giocatore, Stubbins. Forse avresti dovuto diventare professionista.

— Ah, be’… In realtà, lo ero — rispose Stubbins, meditabondo. — Ero allievo nel Newcastle United, ma… La guerra, allora, era incominciata da poco. Non passò molto tempo prima che ponesse fine persino al calcio. In realtà, si è giocato qualche campionato anche in seguito: quelli regionali, e la coppa bellica. Negli ultimi cinque o sei anni, però, anche questi sono stati sospesi.

— Be’, è un vero peccato. Hai un grande talento, Stubbins.

Con la delusione che si mescolava alla modestia innata, Stubbins scrollò le spalle: — Era destino…

— Adesso, però, hai fatto qualcosa di molto più importante — lo consolai. — Hai partecipato alla prima partita di calcio della storia del mondo, e hai segnato parecchi goal. — Ciò detto, gli percossi amichevolmente la schiena. — E questo sarebbe un onore per chiunque!

Con il trascorrere del tempo, divenne sempre più evidente, al livello spirituale al di sotto dell’intelletto in cui risiede la vera conoscenza, che in verità non saremmo mai ritornati nel nostro secolo. Gradualmente, e immagino che ciò fosse inevitabile, i rapporti formatisi nel ventesimo secolo divennero ricordi sempre più remoti. Fra i coloni, sepoy, gurkha e inglesi, si formarono nuove coppie, senza alcun riguardo per il rango, la classe o la razza. Soltanto Hilary Bond, che conservava un residuo di autorità, rimase sola.

Allorché le dissi che in virtù del suo grado avrebbe potuto celebrare matrimoni, come avrebbe potuto fare un capitano con i passeggeri della sua nave, Hilary mi ringraziò cortesemente del suggerimento, ma in tono scettico, perciò lasciai cadere l’argomento.

Nuove capanne furono costruite presso la spiaggia e lungo la riva de fiume. Hilary assistette ai lavori con occhio tollerante: l’unica condizione da lei posta fu che, almeno per il momento, ogni abitazione doveva essere costruita in vista di almeno un’altra, e nessuna a più di un miglio di distanza dalla casa comune. Tali restrizioni furono accettate di buon grado dai coloni.

In breve tempo, divenne evidente che, nei confronti del matrimonio, l’atteggiamento di Bond era tanto saggio quanto il mio era scriteriato. Un giorno, vidi Stubbins passeggiare sulla spiaggia con le braccia sulle spalle di due giovani donne. Nell’incrociarli, li salutai cordialmente tutti quanti, ma subito dopo mi resi conto di non sapere quale delle due donne fosse la “moglie” di Stubbins.

Quando mi recai da lei a protestare, Hilary minimizzò con malcelato divertimento.

— Al ballo — insistetti — ho visto Stubbins con Sarah, ma poi, una mattina della settimana scorsa, quando sono andato a fargli visita, ho trovato l’altra ragazza nella sua capanna…

Allora Bond scoppiò a ridere: — Mio caro amico — rispose, posandomi le mani cicatrizzate sulle braccia — hai veleggiato sui mari dello spazio e del tempo, hai conosciuto diversi corsi della storia, sei indubbiamente un genio, eppure… Quanto poco conosci le persone!

Imbarazzato, chiesi: — Che cosa intendi dire?

— Rifletti. — Hilary si passò una mano sul cuoio capelluto cicatrizzato, dove crescevano ciuffi di capelli ingrigiti. — Siamo in tredici, senza contare il tuo amico Nebogipfel, e le donne sono otto, mentre gli uomini sono cinque. — Mi scrutò. — Per giunta, siamo soli. Non ci sono isole all’orizzonte, da cui potrebbero arrivare giovani maschi a sposare le nostre ragazze. Se celebrassimo matrimoni, cioè se adottassimo la monogamia, come tu suggerisci, la nostra piccola società non tarderebbe a disgregarsi. Otto e cinque, infatti, non sono in rapporto pari. Credo dunque che una certa scioltezza nei rapporti sia conveniente, per il bene di tutti. Non credi? Inoltre, tutto ciò è positivo anche nei confronti della “diversificazione genetica” di cui ci parla tanto Nebogipfel.

Rimasi sconvolto, ma non, come credo fermamente, e forse ingenuamente, per l’aspetto morale della situazione, bensì per il calcolo che vi era sotteso.

Mi accingevo ad andarmene, turbato, allorché fui colto da una consapevolezza improvvisa: — Ma… Hilary… Io sono uno dei cinque uomini di cui parli…

— E ovvio — rispose Bond, prendendosi manifestamente gioco di me.

— Ma io non… Voglio dire, non ho…

— Allora — sorrise Hilary — è forse tempo che rimedi. Continuando così, non faresti che peggiorare la situazione. Me ne andai, confuso. Era evidente che, fra il 1891 e il 1944, la società si era evoluta in modi che non avevo mai neppure sognato.

Nel frattempo, la costruzione della casa comune progredì rapidamente: pochi mesi dopo il bombardamento, fu terminata. Hilary Bond annunciò che avremmo celebrato l’evento con una cerimonia d’inaugurazione. Sulle prime, Nebogipfel rifiutò di presenziare, perché, con l’eccessiva razionalità che era tipica dei Morlock, non comprendeva lo scopo di tale cerimonia. Tuttavia finì col lasciarsi persuadere da me che, dal punto di vista delle future relazioni fra i coloni, sarebbe stato saggio partecipare.

Lavato e sbarbato, cercai di apparire il più elegante possibile, tenuto conto che indossavo soltanto un paio di calzoncini laceri. Nebogipfel si spuntò e si spazzolò la pelliccia bionda. Data la situazione, i coloni avevano ormai preso l’abitudine di andarsene in giro seminudi, vestiti soltanto di strisce di tessuto o di pelle, come suggeriva la decenza. Il giorno dell’inaugurazione, invece, indossarono i resti delle uniformi, lavati e rammendati per quanto possibile. Anche se ad Aldershot non avrebbero di certo superato l’ispezione, riuscirono a sfoggiare un’eleganza e una disciplina che io per primo trovai commovente.

Saliti i pochi gradini sconnessi, entrammo nell’interno buio della nuova casa comune. Il pavimento, ugualmente sconnesso, era pulito. I raggi del sole mattutino entravano obliqui dalle finestre senza vetri. Nonostante la rozzezza del progetto e della realizzazione, la casa comunicava una sensazione di solidità e d’intenzione a durare che suscitò in me una sorta di timore reverenziale.

In piedi sopra il serbatoio del veicolo, utilizzato come podio, Hilary Bond si appoggiava con una mano a una delle ampie spalle di Stubbins. Il suo volto sfigurato, con le ciocche bizzarre di capelli sul cranio, aveva un’espressione di semplice dignità.

Ormai, annunciò Hilary, la nuova colonia era fondata, ed era pronta a ricevere un nome. Dopo avere proposto di battezzarla Prima Londra, chiese a tutti noi di unirsi a lei in una preghiera. Come gli altri, chinai la testa e giunsi le mani. Poiché ero cresciuto in una famiglia di stretta osservanza anglicana, le parole di Bond ebbero su di me un effetto nostalgico, riportandomi a un periodo più semplice della mia vita: un periodo di certezze e di sicurezza.

Poco a poco, mentre Hilary continuava il suo discorso semplice ed efficace, rinunciai ad ogni tentativo di analisi, abbandonandomi alla condivisione di quella semplice celebrazione comune.

17

Figli e discendenti

I primi frutti delle nuove unioni giunsero entro l’anno, sotto la supervisione di Nebogipfel.

Il primo neonato della colonia fu esaminato appunto da Nebogipfel. La madre protestò, riluttante ad affidare la propria bambina a un Morlock, ma Hilary Bond, che era presente, placò le sue paure. Infine, Nebogipfel annunciò che si trattava di una femmina perfettamente sana e restituì la neonata ai genitori.

In un periodo di tempo molto breve, o almeno così mi parve, nacquero altri bambini. Divenne consueto vedere Stubbins portare sulle spalle il suo figlioletto, con gioia evidente di quest’ultimo: ero sicuro che entro breve tempo lo avrebbe portato sulla spiaggia a tirare calci ai gusci di bivalve per insegnargli a giocare a calcio.