Non respiravo. È facile dirlo, ma è difficile comunicare lo strazio di tale consapevolezza! Mi sentivo estraniato dal mio corpo. Non percepivo nulla di quelle attività meccaniche, come il soffio del respiro, il pulsare del cuore, le innumerevoli, minuscole contrazioni dei muscoli e delle membrane, che costituiscono, sebbene inconsapevoli, la superficie dell’esistenza umana. Era come se tutto il mio essere, la mia identità nella sua interezza, fossero compresse in quello sguardo aperto, fisso, paralizzato.
Immagino che avrei dovuto spaventarmi, lottare per riprendere a respirare, come se stessi annegando. Eppure non provai alcuna smania del genere: mi sentii anzi assonnato, sognante, come sotto l’effetto dell’etere.
Fu proprio tale assenza di terrore, credo, a persuadermi della mia stessa morte.
Una forma si parò fra il mio campo visivo e il cielo vacuo: era rozzamente piramidale, con i contorni confusi, simile a una montagna incombente, del tutto in ombra.
Naturalmente, riconobbi l’apparizione: era l’oggetto che avevo visto dalla scialuppa temporale arenata sul ghiaccio. La piramide, che mi sembrava essere una macchina, si avvicinò con un movimento strano e fluido che mi ricordò il flusso della sabbia in una clessidra. Con la coda occhio, vidi il bordo cangiante della macchina passarmi sul petto e lo stomaco, procurandomi una serie di punture. Avevo dunque riacquistato la sensibilità, e per giunta con la subitaneità di una fucilata! Mi sentii sfregare il petto, come se la camicia venisse tagliata e scostata. Le punture divennero più profonde, come se minuscoli insetti affondassero i palpi nelle mie carni per infestarmi. Provai dolore: un milione di piccole fitte al ventre.
Non ero morto, insomma: non ero affatto disincarnato! Alla consapevolezza del fatto che continuavo ad esistere, si accompagnò il ritorno della paura, che avvenne in un istante, mentre nel mio organismo si diffondevano con veemenza le sostanze chimiche che mi erano state iniettate.
L’ombra piramidale che incombeva su di me, fosca e sinistra, riprese a strisciare sul mio corpo verso la testa. Sicuro che entro breve tempo sarei stato soffocato, desiderai gridare, ma ciò fu impossibile perché la bocca e il collo erano completamente paralizzati, privi di sensibilità.
In tutti i miei viaggi, non mi ero mai sentito tanto impotente quanto in quel momento: mi sembrò di essere una rana sopra un tavolo anatomico.
All’ultimo istante, percepii un movimento sulla mia mano, un freddo lieve, una carezza di pelliccia: era quella di Nebogipfel che stringeva la mia. Mi chiesi se giacesse accanto a me, intanto che veniva effettuata quell’orrenda vivisezione. Cercai di chiudere le dita, senza però riuscire a muovere un solo muscolo.
La piramide raggiunse il mio viso, celando la chiazza di cielo che mi era amica. Gli aghi mi penetrarono nel collo, nel mento, nelle guance, nella fronte. Sentii una puntura, un prurito insopportabile alla superficie degli occhi aperti. Avrei voluto distogliere lo sguardo, abbassare le palpebre, ma non potevo: fu la tortura più raffinata che potessi immaginare.
Infine, mentre il fuoco mi pervadeva persino i miei bulbi oculari, persi la presa sulla coscienza: lentamente, misericordiosamente, come scivolando.
Ritornai al mondo come emergendo attraverso strati di sogni luminosi, nuotando tra visioni frammentarie di sabbie, di foreste e di mari, assaporando di nuovo le bivalvi salmastre e coriacee, nonché giacendo con Hilary Bond nella calda oscurità.
Lentamente, ripresi del tutto conoscenza, trovandomi in una situazione che, a differenza di quella del mio primo risveglio, non aveva nulla dell’incubo.
Giacevo sopra una superficie dura. Quando cercai di muovermi, la schiena rispose con una contrazione dolorosa, e così pure le gambe divaricate, le braccia, le dita formicolanti, con il sibilo quasi meccanico del respiro attraverso le narici e il rombo del sangue nelle vene. L’oscurità era assoluta, ma questo dettaglio, che un tempo mi avrebbe terrorizzato, mi parve secondario, perché ero di nuovo vivo, avvolto nei familiari rumori meccanici del mio corpo funzionante. In un empito di sollievo puro e intenso, lanciai un grido di gioia.
Mi alzai a sedere nell’oscurità impenetrabile. Nel posare le mani sul pavimento, sentii uno strato di granelli ruvidi, come di sabbia stesa sopra una superficie più dura. Benché indossassi soltanto la camicia, i calzoni e gli stivali, non avevo freddo. Gli echi dell’urlo che mi ero lasciato scioccamente sfuggire erano rimbalzati come in uno spazio chiuso.
Girai la testa all’intorno, in cerca di una finestra o di una porta, ma invano. Poi mi accorsi di avere qualcosa intorno alla testa: un oggetto che mi premeva sul naso. Sollevando le mani a investigare, scoprii d’indossare un paio di occhiali pesanti.
Li palpai, e l’ambiente fu invaso da una luce splendente.
Accecato, serrai d’istinto gli occhi, quindi mi strappai gli occhiali, e la luce scomparve, lasciandomi di nuovo immerso nell’oscurità. Li rimisi, e la luce tornò.
Non fui costretto a sforzarmi molto per capire che il buio era reale, mentre la luce era fornita dalle lenti, che avevo attivato inavvertitamente. Dunque gli occhiali erano simili a quelli che il povero Nebogipfel aveva perduto nel paleocene, durante la tempesta.
Quando la vista si fu abituata alla luce, mi alzai e mi osservai. Ero integro e apparentemente sano. Sulle mani e sulle braccia non trovai tracce dell’attività pervasiva della piramide. Trovai invece una serie di chiazze bianche sul tessuto della camicia e dei calzoni militari. Palpandole, scoprii che erano in rilievo: sembrava che si trattasse di rozzi rammendi.
La stanza in cui mi trovavo, larga circa tre metri e mezzo e alta altrettanto, era la più strana che avessi visto sino a quel momento durante tutti i miei viaggi attraverso il tempo. Sembrava una stanza d’albergo del tardo diciannovesimo secolo, però non era a pianta rettangolare, come nella mia epoca, bensì di forma conica, simile all’interno di una tenda, priva di porta e di mobilio, con il pavimento coperto da uno strato uniforme di sabbia, in cui si era impressa, dove avevo dormito, l’impronta del mio corpo. Le pareti, e persino i pannelli delle finestre dalle pesanti tende scostate, erano rivestiti di carta da parati ruvida, di un vistoso color porpora.
Benché non vi fosse alcuna fonte d’illuminazione, nella stanza era diffusa una luce uniforme e fioca, simile a quella di una giornata nuvolosa, dovuta sicuramente agli occhiali che indossavo. Il soffitto era decorato con straordinari dipinti barocchi, in cui riuscii a distinguere forme umane frammentarie e distorte: non grottesche, bensì rozze e confuse, come se fossero state dipinte da un artista dotato dell’abilità tecnica di Michelangelo e dell’immaginazione di un bimbo ritardato.
In sostanza, quell’ambiente sembrava una camera d’albergo a poco prezzo della mia epoca, però trasfigurata magicamente, come in un sogno.
Con gli stivali che scricchiolavano sulla sabbia, esaminai la stanza.
Le pareti non avevano commessure, né vi era alcuna traccia di una porta. Trovai un cubo di porcellana bianca di circa novanta centimetri di lato. Quando vi montai, inaspettatamente, da alcune aperture nelle pareti uscirono sibilando getti di vapore. Sconcertato, smontai dal cubo e i getti cessarono. Il vapore che indugiava mi sfiorò il viso.
Sulla sabbia trovai alcune ciotoline larghe come una mano aperta, con il bordo rilevato, come piattini. Alcune contenevano acqua, altre cibi semplici, come frutta, noci, e bacche, che però non riuscii a riconoscere. Assetato, vuotai due delle tazze che contenevano l’acqua. Erano tutt’altro che comode, perché erano così poco profonde che, nel bere, si rischiava sempre di rovesciarne il contenuto: più che a tazze, assomigliavano a recipienti adatti ai cani o ai gatti. Assaggiai la frutta, che era poco saporita, ma gradevole.