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Robert Silverberg

Il secondo viaggio

1

Perfino la strada gli sembrava sbagliata sotto i piedi. C’era qualcosa di stranamente elastico nel selciato, cedeva troppo. Come se avessero cambiato la mescola del cemento durante i quattro anni di guai che aveva passato. Un nuovo materiale futuristico, il marciapiede modello 2011, elastico e bizzarro. Ma no. Il marciapiede era sempre uguale. Lui era diverso. Come se quando l’avevano cambiato avessero cambiato anche il suo passo, l’articolazione delle ginocchia, la rotazione dell’anca. Non si sentiva più sicuro dei suoi movimenti. Non sapeva se doveva appoggiarsi sul selciato con il tallone o con la punta. Ogni passo era una nuova scoperta. Si sentiva goffo e incerto all’interno del suo stesso corpo.

Ma era davvero il suo? Fino a che punto arrivavano quelli della Riab a ricostruire l’esistenza di un uomo? Magari un trapianto totale di cervello. Estraevano la vecchia materia grigia, ci iniettavano dentro qualche medicina, la ficcavano in un nuovo corpo. E magari mettevano il cervello riabilitato di qualcun altro nel tuo cranio vuoto. Il vino vecchio in una brocca nuova. No. No. Non è così che lavorano. Questo è il corpo con cui sono nato. Ho qualche difficoltà di coordinamento, è vero, ma c’era da aspettarselo. Il primo giorno di libertà. Martedì di un qualche giorno di maggio del 2011. Limpido cielo azzurro sopra i grattacieli di Manhattan Nord. Sono un po’ goffo, da principio. E allora? E allora? Non mi avevano detto che sarebbe successo qualcosa del genere?

Calmati adesso. Controllati. Non ti ricordi come camminavi? Cerca solo di essere naturale.

Passo. Passo. Passo. Prendi il ritmo. Tallone punte, tallone punte. Passo. Passo. Così si fa! Uno-due-uno-due-uno-due. Così cammina Paul Macy. Sicuro di sé, lungo la maledetta strada. Spalle dritte. Pancia in dentro. Trentanove anni. Nel fiore della vita. Forte come un… Com’era la frase? Forte come un toro? Sì. Un toro. Un toro. La fortuna ti aspetta. Un secondo viaggio, un secondo inizio. Il brutto sogno è finito; adesso sei sveglio. Passo. Passo. E le tue braccia? Lasciarle penzolare? Mani in tasca? Non preoccuparti di questo, continua a camminare. Che le braccia se la cavino da sole. Ti ci abituerai. Sei sulla strada, sei libero, sei stato riabilitato. Stai andando ad assumere il tuo nuovo lavoro. La tua nuova carriera. La tua nuova vita. Passo. Passo.

Uno-due-uno-due.

Non poteva evitare la sensazione che tutti lo stessero guardando. Anche questo probabilmente era normale, un piccolo attacco di paranoia. Dopo tutto, aveva il distintivo Riab sul risvolto, quel pezzettino di metallo scintillante che indicava la sua condizione di ricostruito. L’immagine di nuovi virgulti che crescevano da un vecchio ceppo, che avvertivano chiunque l’avesse conosciuto ai vecchi tempi di usare tatto con lui. Nessuno avrebbe dovuto salutarlo con il suo vecchio nome. Nessuno avrebbe dovuto ammettere l’esistenza di un passato. Il distintivo Riab aveva lo scopo di proteggerlo dall’insinuarsi dei vecchi ricordi. Ma naturalmente attirava anche l’attenzione. La gente lo guardava… perfetti sconosciuti, per quanto ne sapeva, anche se non poteva esserne certo… la gente lo guardava e si faceva domande. Chi è questo tipo, cosa ha fatto per essere condannato alla Riab? Il triplice assassino dell’ascia. Ha violentato una bambina di nove anni con le forbici. Ha sottratto dieci milioni di dollari. Ha avvelenato sei vecchiette per impadronirsi delle eredità. Ha messo la dinamite nella cattedrale di Chartres. Tutti quegli occhi su di lui, che si interrogavano. Immaginavano i suoi peccati. Il distintivo li avvertiva che lui era qualcosa di speciale.

Non c’era modo di nascondersi da quegli occhi. Macy raggiunse il marciapiede e camminò lungo il bordo. Entro la striscia di lucido metallo rosso inserito nel lastrico che lanciava impulsi magnetici che impedivano alle auto di saltare sul marciapiede. Anche quello non servì a niente. Immaginava che i guidatori che gli sfrecciavano accanto si sporgessero per fissarlo. Attraversando il marciapiede in diagonale, trovò un altro cammino, rasente i fianchi degli edifici. Bravo, Macy, nasconditi. Tieni una spalla più alta dell’altra e illuditi che questo serva a non farti vedere in faccia. Abbassa la testa. Jack lo Squartatore a passeggio. Nessuno ti sta guardando. Questa è New York, ricordi? Potresti camminare lungo la strada seminando merda e nessuno se ne accorgerebbe. Non qui. Questa città è piena di Riab. Perché qualcuno dovrebbe occuparsi di te e del tuo passato cancellato? Basta con la paranoia, Paul.

Paul.

Anche questa era una parte difficile. Il nuovo nome. Io sono Paul Macy. Un nome dolce, compatto. Chi l’aveva inventato? C’è un computer nelle viscere della terra che mette insieme le sillabe e fabbrica nuovi nomi per i ragazzi della Riab? Paul Macy. Niente male. Avrebbero potuto dirmi che ero Dragomir Slivovitz. Izzy Levine. Leroy Rastus Williams. Invece saltano fuori con Paul Macy. Per il lavoro all’olovisione, immagino. Ci vuole un nome del genere per i media. "Buona sera, vi parla Dragomir Slivovitz, con le notizie delle undici. Parlando dalla sua residenza alla Casa Bianca Lunare, il Presidente ha dichiarato…" No. Avevano trovato il nome giusto per la sua nuova carriera. Fottutamente anglosassone.

D’improvviso provò un gran desiderio di vedere la faccia che aveva. Non riusciva a ricordare che aspetto avesse. Fermandosi bruscamente, si voltò a sinistra e guardò la sua immagine riflessa su un pilastro lucido come uno specchio accanto all’ingresso di un edificio adibito a uffici. Vide una faccia standard anglosassone, con guance larghe e labbra sottili, un grosso mento e un sacco di capelli giallo-castani, mossi dal vento, e occhi azzurri alquanto infossati. Niente barba né baffi. La faccia sembrava forte, affabile. Ben proporzionata e del tutto sconosciuta. Rimase sorpreso vedendo quanto sembrava rilassato: nessuna riga di tensione sulla fronte, nessun cipiglio né durezza nello sguardo. Macy assorbì tutto questo in una frazione di secondo; poi, la persona che stava camminando alle sue spalle, presa alla sprovvista dalla sua improvvisa fermata, gli venne addosso. Macy si girò. Una ragazza. Sollevò subito la mano prendendola per il gomito, per sostenerla. Era più colpa di lei che sua: dovrebbe guardare dove va. Tuttavia si sentiva un po’ in colpa. — Mi dispiace terribil…

— Nat — disse lei — Nat Hamlin, per l’amor di Dio!

Qualcuno stava infilando un lungo ago freddo nel suo occhio. Sotto la palpebra, con grande delicatezza, su e su, attorno alla sommità del globo oculare, oltre i fili intrecciati dei nervi, fino al cervello. L’ago possedeva una sorta di estensione; sembrava espandersi telescopicamente, scivolando attraverso le masse corrugate e involute di morbido tessuto, trapassandolo dalla fronte fino alla calotta. Un minuscolo lampo di luce brillante dovunque la punta dell’ago toccasse. Ah, bene, noi tagliare questo, e poi isolare questo, e poi recidere un poco qui, ja, ja, ist gut! E il dolore. Oh, Cristo, il dolore, il dolore, il dolore, il fuoco che scorreva lungo ogni neurone e ogni sinapse, il dolore! Come se mille denti gli venissero estratti contemporaneamente. Gli avevano detto che non gli avrebbe fatto il minimo male. Quei fottuti bastardi.

Gli avevano spiegato come affrontare una situazione del genere. Doveva essere gentile ma fermo. Gentilmente ma fermamente disse: — Mi spiace, ma si sbaglia. Il mio nome è Paul Macy.

La ragazza si era ripresa dallo shock. Fece un paio di passi indietro e lo studiò con attenzione. Lui e lei costituivano adesso un’isola di stasi sul marciapiede affollato; la gente passava senza sosta accanto a loro.

Lei era alta ed esile, con lunghi capelli rossi, lisci, inquieti occhi verdi, lineamenti delicati. Una lieve spruzzata di efelidi alla radice del naso. Labbra piene. Niente trucco. Indossava una giacca primaverile a quadri blu, spiegazzata. Aveva l’aria di non aver dormito bene negli ultimi tempi. Doveva avere 28 o 29 anni. Molto pallida. Attraente, in una maniera stanca e fragile. Disse: — Non prendermi in giro. Lo so che sei Nat Hamlin. Ti trovo bene, Nat.