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Bob Shaw

Il terzo occhio della mente

Prima parte

1

Mentre si versava il caffè della prima colazione, John Redpath s’accorse di qualcosa di “strano”, di qualcosa che “non andava”, pur non riuscendo a capire che cosa fosse…

Restò un momento a guardarsi intorno, poi tese l’orecchio per sentire se tra i rumori familiari del mattino presto, nello stabile in cui abitava, ne mancasse qualcuno, ovvero ce ne fossero di insoliti. Il condominio tornava in vita nel solito modo che gli era familiare da mille mattine, tra esitazioni e sicurezze. Non c’era niente di strano. “Sentiva” la giovane coppia al piano di sopra fare l’amore in fretta, coi vestiti stesi ad asciugare che si stagliavano come fantasmi contro la porta, col pane già tostato e la marmellata e il burro, con la sacra trinità (sigarette, soldi e chiavi della macchina) disposta in bell’ordine sulla credenza. Sentiva che il vecchio signor Coates, nell’appartamento a fianco, riprendeva lentamente conoscenza, contento e al tempo stesso deluso di non essere morto nelle ore tranquille della notte. Sull’altro lato del corridoio, Harv Middleton si era già messo in moto per la giornata di lavoro, circondato da una nube di profumi diversissimi. Middleton girava per caffè e ristoranti a vendere insegne di plastica da esporre in vetrina, ma aveva il vezzo di raccontare che si occupava di “pubblicità”. Nel resto dell’edificio era tutto normale, per cui il qualcosa d’insolito doveva essere proprio lì, fra le quattro pareti del suo appartamento.

Controllò la cucina, verificò la presenza e la posizione di ogni singolo oggetto. Aveva sentito dire che a volte si subisce un furto e ci si accorge della mancanza di un oggetto familiare soltanto dopo mesi. Ma nemmeno lì scoprì qualcosa che giustificasse il suo stato d’animo. Era probabile che non esistesse una causa esterna, che quella sottile inquietudine si stesse sviluppando dietro i suoi occhi, fra le sue orecchie, nel suo cervello. Cercò di studiare le proprie reazioni. I raggi di sole che cadevano sul parquet erano troppo gialli, troppo luminosi, troppo vivaci? La decorazione blu e marrone sul boccale che usava per il caffè freddo era diventata più bella, evocava piaceri estetici eccessivi? Agli odori consueti dei cibi e delle bevande si mischiavano fragranze esotiche, come il profumo della Chamberyzette o dei fiori di magnolia gialla? Insomma, stava per avere una visione?

“No, per favore, no” pensò. “Non oggi.”

Si spostò in camera da letto, davanti al lungo specchio con la cornice cromata, e restò a guardarsi. L’immagine che lo fissava in una falsa intimità era quella di un uomo alto, magro, sulla trentina, coi capelli color castano chiaro e ondulati, una carnagione chiara, secca, lentigginosa; il tipo di carnagione che non sembra mai sudata. La bocca era di un’irrequietezza assoluta, per cui l’espressione della faccia poteva passare in un attimo dal divertimento all’irritazione, all’incupimento; gli occhi castani erano sinceri e curiosi. Nell’insieme, l’immagine dava l’impressione di buona salute, e Redpath di solito ne era felice, dal momento che soffriva di una malattia incurabile. Altre volte, però, se non altro per il semplice fatto che gli sarebbe stato più facile affrontare la situazione, gli sarebbe parso più giusto, e in un certo senso anche più soddisfacente, sembrare malato.

In quel momento non aveva modo di sapere se stesse sperimentando l’aura che precede un attacco di grande male, cioè se stesse subendo una lieve epilessia psicomotoria coi conseguenti disturbi all’attività cerebrale, o se si trattasse semplicemente di un periodo in cui le sue percezioni erano particolarmente acute, senza nessun nesso con attività neurologiche anormali. Decise di prendere qualche misura precauzionale.

Posò la tazza di caffè, andò in soggiorno, prese una scatola per sigari piena di freccette e si mise in posizione davanti al bersaglio appeso vicino alla finestra. Con la punta del piede all’estremità del tappeto era lontano dal bersaglio esattamente tre metri. Redpath si concentrò al massimo e cominciò a lanciare le freccette. Voleva piantarne una in ognuno dei venti settori di cui era composto il bersaglio. Sulla scatola c’erano ventun freccette; in quella battaglia con se stesso gli era concesso un solo errore. Dovette fare due tentativi col settore numero quattro (lo trovava sempre difficile), ma ripetere il colpo lo aiutò a migliorare la mira, e tutte le altre freccette andarono a segno. Al secondo tentativo gli occorsero due lanci sia per il quarto sia per il sedicesimo settore, ma al terzo non sbagliò nemmeno un colpo e restò con una freccetta in mano. Resistette alla tentazione di lanciarla al bersaglio, perché se l’avesse colpito si sarebbe eccitato, e l’eccitazione era pericolosa. Poi si rimise a fare l’inventario di tutti i fattori intangibili che formavano la sua autocoscienza.

Si sentiva calmo, rilassato, perfettamente immerso nella realtà.

Il dottor Hyall gli aveva raccomandato, come terapia per la prevenzione degli attacchi, di dedicarsi a un’attività manuale (“È un fatto ben noto che le crisi si verificano molto di rado quando si è impegnati in un lavoro”). Per un po’ Redpath aveva provato a lavorare come gioielliere e orologiaio, ma un’occupazione del genere aveva lo svantaggio di seguire ritmi molto lenti: da un giorno all’altro si perdevano le fila del lavoro, e occorreva troppo tempo per riprenderle in mano. Le freccette, invece, gli offrivano un coinvolgimento immediato e completo della vista, del tatto e del pensiero. Nonostante lo scetticismo del dottor Hyall e di altri, Redpath era convinto che scaricassero lungo canali innocui gli eccessi di energia neurale.

Andò a riprendere la tazza del caffè e si trasferì in cucina. Adesso si sentiva leggermente svuotato. “Non vincerò mai” pensò. “Ed è tutta colpa di Leila. Stamattina avrebbe dovuto essere qui.”

Redpath finì il caffè, mise la tazza nel lavandino, accanto alla ciotola per cereali, e lasciò scorrere un po’ d’acqua calda. Gli restavano ancora quindici minuti prima di dover partire per l’istituto. Adesso si sentiva abbastanza forte da affrontare il giornale e la posta, che lo aspettavano in corridoio da quando si era alzato. Uscì dalla cucina e si inginocchiò a raccogliere le carte sparse attorno alla porta. La busta marrone era in cima al mucchio e recava l’intestazione: “Harrup Phizackeley, Agenzia Immobiliare”. Capì subito che si trattava di un altro sollecito per il pagamento dell’affitto, ormai in arretrato di tre mesi. Palpò la busta, decise che doveva contenere più di un foglio, e si chiese se la situazione fosse degenerata oltre i limiti consueti. Comunque quello era un mistero che poteva risolvere in serata. Mise da parte la lettera senza aprirla. Guardò le altre tre buste: due avvisi pubblicitari e una bolletta della luce. Cosa diceva quell’inserzione che leggeva sempre sulle riviste americane? “Riceverete posta interessante.”

Con un sospiro, ancora inginocchiato, rivolse l’attenzione al giornale, che era l’“Haverside Herald”, un piccolo quotidiano diffuso nelle Quattro Città e nei pochi villaggi che formavano il distretto di Sud Haverside. Lo preferiva ai giornali a diffusione nazionale perché, nonostante l’“Herald” facesse di tutto per essere irritante come ogni quotidiano che si rispetti, di solito parlava di tragedie su scala minore, e così Redpath poteva cullarsi nell’illusione che esistessero vie d’uscita. Per esempio, quel mattino un articolo in prima pagina parlava di un allevatore di piccioni dei dintorni a cui era scomparsa un’intera nidiata di uccelli da competizione.

… «Si tratta senz’altro di sabotaggio» ci ha raccontato stasera il signor Giddings, che ha 54 anni. «I miei piccioni sono arrivati in perfetto orario dalla Francia, e senza ombra di dubbio sono stati visti passare sul punto di controllo di Tiverly Edge alle dieci di mattina di domenica, il che significa che avrebbero dovuto»…