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Frank Belknap Long

In una piccola città

1

Bobby Jackson

Fu una scoperta spaventosa. L’uomo e la donna che abitavano nella casa di Jonathan Oakham non erano umani. Non chiedete­mi come ho fatto ad accorgermene. Ci sono cose che non si pos­sono spiegare né analizzare. Come capita a quasi tutti, io vivo qualche volta in un mio mondo privato, e non manco mai di al­larmarmi quando qualcosa di decisamente storto scuote questo mondo come un sisma di ottavo grado.

D’accordo, ho solamente quattordici anni. Ma sono un ragaz­zo in gamba. Dicono che ho un quoziente di intelligenza di circa 150, e io me ne accontento, anche se il quoziente d’intelligenza del genio può arrivare a venti punti di più. Un ragazzo con un quoziente d’intelligenza come il mio riesce a tenere nascosto quasi tutto quello che sa, mentre quelli da 170 sono come bam­bini smarriti nel bosco. La spinta del genio che è in loro può es­sere troppo forte. Allungano troppo il collo in un’età ancora im­matura e… sapete come dice quel vecchio adagio: “Se non stai attento, i folletti ti pigleranno”. Al termine folletti, sostituite “cittadini medi”.

Ma torniamo alla coppia di casa Oakham. Si installarono in quel decrepito mausoleo ricoperto d’edera senza dare nell’oc­chio, senza bizzarrie o altro che dessero adito a commenti da par­te dei cittadini.

Cominciarono con lo scegliersi i nomi adatti: signore e signora Martin. Come tutti gli ornitologi sanno, il Martin è una rondine grigia priva di caratteristiche che attirino l’attenzione. Mi sembra di sentire i commenti dei vicini: con un nome simile, lui deve oc­cuparsi di immobili o qualcosa del genere; anche se è ricco, di si­curo non si dà arie; forse ha un figlio o una figlia all’università, da qualche parte, è uno che per i suoi figli vuole il meglio; niente au­to grosse e costose, anche se forse se le potrebbe permettere, e neppure macchinette tipo Jaguar, né locali pretenziosi o sbornie nelle osterie. Lo si capisce subito.

A prima vista Thomas Martin sembrava più vicino ai cinquanta che ai quaranta. Ma non so come, la definizione “di mezza età” non gli si attagliava, e fu questo che destò in me i primi sospetti. Helen Martin, in modo particolare, quando la si guardava atten­tamente in piena luce, non sembrava né giovane né vecchia. Sembrava davvero che non avesse età.

Certo, non era un particolare che saltava agli occhi. L’impres­sione però rimaneva, inequivocabile. Era proprio una di quelle cose che probabilmente sarebbero sfuggite a un ragazzo con un quoziente di 170, perché lui avrebbe avuto la tendenza a essere troppa scientifico, troppo analitico.

Non mi resta molto per completare il quadro. Da quanto vi ho detto finora, dovete avere sotto gli occhi, grosso modo, la situa­zione. Vi sarete ormai fatti un’idea generale: finalmente nuovi inquilini nella vecchia casa Oakham, un furgone da traslochi che viene scaricato, un sorriso e una carezza al bambino curioso che sta a guardare. Poi, con qualche altro rapido tratto di matita, un conto corrente aperto alla Second National Bank, una capatina all’emporio alimentare più vicino, con il signor Martin che dice: “Oh, sì, lei deve essere la signora Parker, la nostra vicina. Ce l’ha detto l’agente immobiliare…”. Sorrisi e cenni circolari. “Non è una bella cosa? Mia moglie ha pensato che per stasera basteran­no un po’ di burro, latte e uova. Domani avremo tempo di fare tutte le altre spese”.

Poi, per una quindicina di giorni, tutto fila liscio. Conoscono altri vicini, non fanno niente di strano, si rendono simpatici senza mostrarsi invadenti. Stanno bene attenti a non creare possibili at­triti, a non fare niente che possa attirare l’attenzione.

Thomas Martin va al lavoro tutte le mattine con una cartella sotto il braccio, la signora Martin è indaffarata in cucina, o è in cortile a stendere il bucato. Sorrisi ai bambini e ai garzoni dei for­nitori.

E mai possibile che in una piccola città uno riesca a tenere segreto il proprio lavoro? Ci sarebbe da meravigliarsi se fosse così. Certo, per un paio di mesi può anche farlo. “Dove lavora il si­gnor Martin?” “In Cherry Street, mi pare. Non parla molto del suo lavoro”.

“Be’, certo non tutti ci comportiamo così. Ma sembra che lui sia contrario a mescolare gli affari con la famiglia. Cosa c’è di strano?”

Questo, a grandi linee, il quadro… finché entro in scena io.

Se volete, potete immaginarmi, all’inizio, affacciato alla corni­ce del quadro. Cominciai a insospettirmi il giorno stesso del loro arrivo, ma le anomalie rimasero per un po’ soltanto lievi sfuma­ture, finché non notai qua e là alcune piccole bizzarrie di com­portamento.

La signora Martin che fissa un cestino di pomodori al supermercato, per esempio, come se non ne avesse mai visti in vita sua. Li prende, li tasta, sbaglia nel giudicarne il peso. Gli occhi si spalancano per lo stupore quando, avendone fatto cadere uno, lo vede spappolarsi.

E un altro incidente, più notevole. Thomas Martin che cammi­na per strada alle nove del mattino e fa un balzo, con espressione atterrita, vedendo una macchina lontana qualche metro dal mar­ciapiede. È al sicuro, sul marciapiede, eppure si comporta come se al volante ci fosse un pazzo omicida: diventa pallido e stringe la cartella al petto.

Poi il gatto che si spaventò. Era il gatto della signora Parker. Lei lo chiamava Zucchero. Nessuno sapeva il perché, dato che aveva un carattere aggressivo. Era capace di mettersi a battaglia­re con quegli enormi cani, simili a lupi selvatici, che si vedono ogni tanto in giro. Se possedete un lupo nero e vi ci affezionate, magari cercate di farlo passare per un cane. Ecco, lui si azzuffa­va, proprio con quel genere di cani.

Zucchero era indubbiamente un gatto, ma aveva qualcosa di tigresco. Niente era dolce, in lui, a parte il nome. Era una piccola furia sibilante, tutta artigli. Ma avreste dovuto vederlo sulla siepe a cercare di tenere lontana la signora Martin, gli occhi folli di ter­rore, il pelo tutto irto. Continuò a tenere gli occhi fissi e dilatati anche quando la signora Parker lo chiamò dalla sua parte della siepe.

Il rifiuto di accostarsi alla signora Martin, se non a distanza di sicurezza, era così poco consono al suo carattere, che la signora Parker si sentì in obbligo di chiedere scusa alla vicina per il curio­so comportamento della bestia.

— Non capisco cos’abbia Zucchero stamattina. Di solito è così socievole! — (Socievole come uno scorpione su una piastra di lat­ta incandescente!)

Ci sarebbero anche altre cose, ma è ora che v’immaginiate di vedermi scendere dalla collina (la cornice di cui parlavo) per en­trare direttamente nel quadro: un ragazzo mica male, con le len­tiggini, gli occhi celesti e i modi affascinanti. Non sono presun­tuoso, sto solo esponendo dei dati di fatto. In effetti non c’è nien­te di più immaturo e presuntuoso della falsa modestia.

Volevo che Helen Martin mi notasse e mi invitasse in casa sua. Così decisi di fare il ragazzo che si dondola sul cancello.

Un momento… so cosa state pensando. Dite che dondolarsi sui cancelli è roba da bambini piccoli, roba che, dopo le elemen­tari, non si fa più. In linea di massima, avete ragione. Ma c’è mo­do e modo di dondolarsi, e ci sono cancelli e cancelli… tanto che io ho conosciuto degli uomini che lo facevano.

Dovete sapere che casa Oakham aveva un cancello enorme, arrugginito, che oscillava con estrema facilità… un vero pezzo d’antiquariato. Anche uno studente dell’ultimo anno delle supe­riori che si trovasse a non avere altro da fare, passando di lì, avrebbe provato la tentazione di dondolarsi su quel cancello. Magari, solo per il gusto di farlo.

Era il cancello adatto a un uomo robusto e muscoloso, e mi riusciva facile immaginare Falstaff aggrappato saldamente là, che si dondolava avanti e indietro accompagnandosi con un grido to­nante. Falstaff era un uomo enorme, simpatico, e anch’io ho un’aria simpatica, specie quando sono rilassato e mi diverto. Ero sicuro che sarei sembrato l’innocenza in persona, se mi fossi don­dolato con l’aria più naturale del mondo.