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Robert Silverberg

Invasori silenziosi

1

A novecentomila chilometri dalla Terra, l’astronave di Prima categoria Lucky Lady uscì con gran fragore dall’iperpropulsione e iniziò la lunga e sicura planata a propulsione ionica verso la stazione orbitale. In una cabina di seconda classe, il maggiore Abner Harris dei Corpi di Espansione Interstellare (tale almeno risultava dai suoi documenti personali) fissava ansiosamente la propria faccia riflessa nello specchio. Controllava, forse per la centesima volta, che non fosse rimasta sul suo corpo traccia alcuna delle appendici filiformi simili a viticci.

Naturalmente, non vide nessun segno. Lo specchio gli rimandò l’immagine perfetta di un essere umano.

Sorrise. La faccia terrestre che i «medici» gli avevano assemblato si animò: le labbra, ubbidienti, si sollevarono agli angoli, i denti bianchi e regolari comparvero per un attimo in bella mostra. Era un bel sorriso. Un sorriso terrestre: in tutto e per tutto.

Poi, il maggiore Harris aggrottò la fronte, e la faccia si rabbuiò.

Si comportava bene, quella faccia. La bianca pelle sintetica rispondeva come fosse la sua. Al solito, i chirurgo-plastici di Darruu avevano fatto un ottimo lavoro. Un lavoro davvero artistico.

Avevano asportato i viticci carnosi lunghi dieci centimetri che spuntavano sulle tempie di ogni darruuese. Poi avevano coperto l’epidermide (di un intenso colore dorato) con uno strato di bianca pelle terrestre, innestandola con tanta abilità che ormai era diventata sua. Le lenti a contatto avevano trasformato il colore degli occhi, normalmente rosso, in un grigio-azzurro. Un trattamento ormonale gli aveva fatto crescere sulla testa e sul corpo, dove prima non c’era proprio niente, peli fitti come a un terrestre. Gli specialisti di Darruu non avevano alterato gli organi interni: si sarebbe trattato di un intervento al disopra delle loro capacità; e quindi, «dentro», lui restava un alieno, con l’apparato digerente degli abitanti di Darruu, al posto dell’intestino lunghissimo dei Terrestri, e col doppio cuore e il fegato robusto appena dietro ai tre polmoni.

Nella sua personalità restava un alieno: Aar Khiilom della città di Helasz, un darruuese della classe più elevata, un Servo dello Spirito. Ma ora doveva dimenticare la sua identità precedente, e immedesimarsi in quella terrestre.

Si ripeté, cocciuto, che non era più Aar Khiilom, ma il maggiore Abner Harris.

Conosceva nei minimi particolari la biografia del maggiore e se la ripassava di continuo, perché restasse appena sotto la superficie dell’io cosciente (come i nove decimi di un iceberg sotto il pelo dell’acqua) pronta a essere, in caso di necessità, utilizzata.

Il maggiore Abner Harris era nato nel 2520 a Cincinnati, nell’Ohio. Cincinnati è una città pensò. Ohio è uno Stato. Ricordalo e non fare confusioni.

L’Ohio è una grande subunità politica degli Stati Uniti d’America, che a sua volta è una grande sub-unità politica del pianeta Terra.

Il maggiore aveva 42 anni… e un buon secolo di vita ancora davanti a sé. Aveva frequentato la Western Reserve University e aveva studiato galattografia. Laureato nel ’43. Entrato nei Corpi di Espansione Interstellare nel ’46. Promosso ufficiale nel ’50. In servizio ora col grado di maggiore. Missioni diplomatico-militari felicemente concluse su Altair VII, Sirio IX, Procione II, Alpheratz IV e Sirio VII.

Harris non era sposato. I suoi genitori erano morti in un disastro aereo, nel ’44. Non aveva parenti stretti. Altezza, 1,72. Peso, 90. Capelli biondi.

Si recava sulla Terra in vacanza: otto mesi di riposo sul suo mondo natale prima di essere inviato su un’altra base planetaria.

Otto mesi! L’alieno che aveva assunto il nome di Abner Harris pensò che sarebbero stati più che sufficienti perché il maggiore riuscisse a confondersi con i miliardi di abitanti di cui brulicava la Terra e a svolgere la missione che gli era stata affidata.

La Lucky Lady era giunta all’ultimo tratto del viaggio durato mezzo milione di anni-luce, con un carico di passeggeri per la Terra e le altre stazioni intermedie. Harris si era imbarcato sull’astronave ad Alpheratz IV, dov’era arrivato con un mezzo privato da Darruu. Nelle ultime settimane, mentre la gigantesca nave scivolava senza scosse lungo il levigato tunnel grigio nel «continuum» rappresentato dal suo canale d’iperpropulsione, Harris si era esercitato a muoversi nella gravità terrestre.

Darruu era un grande mondo — con un diametro di 34.000 chilometri — e, pur avendo una densità minore della Terra, la sua attrazione gravitazionale era assai più forte. Harris era nato e cresciuto nella gravità di Darruu, pari circa a 1,5 di quella terrestre. Ovvero, secondo il suo modo di pensare quando ancora non aveva assunto un’identità terrestre, la gravità della Terra era pari a 0,67 se confrontata con quella darruuese.

Comunque si considerasse la cosa, il fatto era che i suoi muscoli avrebbero lavorato in un campo gravitazionale più debole di quello in cui si erano sviluppati. Per un certo tempo, almeno, avrebbe avuto la tendenza a camminare alzando troppo i piedi, a fare passi troppo lunghi e a esagerare ogni movimento. Se qualcuno se ne fosse accorto, lui avrebbe potuto dire di essere stato quasi tutta la sua vita su pianeti pesanti, e ciò avrebbe spiegato in parte la sua goffaggine.

In parte, ma non completamente. Un essere nato sulla Terra non dimentica mai come ci si comporta nella gravità terrestre. Per Harris, invece, si trattava d’imparare in un breve periodo. E infatti aveva imparato, con grande fatica, durante le tre settimane di viaggio in iperpropulsione sulla nave diretta verso il sistema solare.

Ora il viaggio era al termine. Restava soltanto il trasferimento dalla nave spaziale a un traghetto terrestre: poi, avrebbe potuto iniziare la sua nuova vita.

La Terra appariva attraverso l’oblò principale che si apriva a sette metri dalla cabina di Harris. Lui la fissò. Una grossa palla verde, con due grandi continenti e un’altra massa di terra che spuntava appena più in là. Una luna gigantesca girava lenta intorno al pianeta, tenendo una faccia butterata eternamente fissa verso quello e l’altra verso lo spazio esterno, come un solo, piccolo occhio scuro.

Quella vista risvegliò in Harris la nostalgia.

Darruu era completamente diverso. Visto dallo spazio, aveva l’aria di un gigantesco frutto rosso avvolto nella nebbia purpurea che costituiva lo strato superiore della sua atmosfera. Attraverso quella si distinguevano gli sterminati mari azzurri e i due enormi continenti, Darraa e Darroo, grandi come emisferi.

E poi c’erano le lune. Harris le ricordò con nostalgia. Sette facce nude e lucenti allineate come monete scintillanti nel cielo; ciascuna formava il proprio angolo con l’eclittica, ciascuna prendeva il suo posto nel cielo notturno come una gemma mossa da un delicato meccanismo. E l’accoppiamento delle lune, quando tutte e sette si univano, una volta all’anno, in un diadema radioso che riempiva il cielo a metà…

Con rabbia, troncò il corso di quei pensieri.

Tu sei un terrestre, ricordalo! Non puoi permetterti il lusso della nostalgia. Dimentica Darruu.

«Signore e signori, siete pregati di tornare nelle vostre cabine» disse una voce da un altoparlante sopra la sua testa. «Tra undici minuti circa, sosta alla stazione spaziale principale. I passeggeri che intendono scendere qui, sono pregati di avvertire lo steward del loro settore.»

Harris tornò nella sua cabina, mentre la voce monotona ripeteva l’avvertimento in parecchie altre lingue terrestri. Sulla Terra si parlavano ancora più di dodici lingue fondamentali, cosa che lo aveva sorpreso quando ne era venuto a conoscenza. Infatti Darruu aveva raggiunto l’omogeneità linguistica già da trecento anni, ed era strano pensare che in un pianeta evoluto come la Terra non la si fosse ancora raggiunta.