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La sensazione di sprofondare.

— Se non hai nemmeno trent’anni.

Sprofondai di più. Attesi. Mi ritirai su.

— Uh… C’è qualcosa che… be’, è tutta colpa della mia reticenza, mi pare di non avertene mai fatto cenno… Tu quanti anni hai, Cassandra?

— Venti.

— Uh-huh. Be’… Io ho circa il quadruplo della tua età.

— Non capisco.

— E nemmeno io. O i dottori. Semplicemente è come se mi fossi fermato, in qualche punto tra i venti e i trent’anni, e fossi rimasto così. Penso che sia una specie di, be’… una parte della mia particolare mutazione, suppongo. Fa qualche differenza?

— Non lo so… Sì.

— Non t’importa che io zoppichi, o che sia eccessivamente villoso, non t’importa nemmeno la mia faccia. Perché dovrebbe preoccuparti la mia età? Io sono giovane, da tutti i punti di vista.

— È semplicemente che non è lo stesso — disse lei con chissà quale scopo. — E se non diventassi mai vecchio?

Mi leccai le labbra. — Succederà, presto o tardi.

— E se fosse tardi? Io ti amo. Non voglio sorpassarti in età.

— Arriverai a centocinquant’anni. Ci sono quelle cure SS. Le prenderai.

— Ma non mi conserveranno giovane, come te.

— Io non sono giovane per davvero. Sono nato vecchio.

Nemmeno questo funzionò. Lei cominciò a piangere.

— Ci mancano ancora tanti anni — la consolai. — Chi sa cosa succederà nel frattempo?

Questo la fece piangere ancora di più.

Io sono sempre stato impulsivo. Di solito ragiono abbastanza bene, ma sembra che lo faccia sempre dopo aver parlato; e generalmente mi trovo ad aver distrutto ogni base per ulteriori stadi di conversazione. Questa è una delle ragioni per cui ho un gruppo competente, una buona radio, e me ne sto per la maggior parte del tempo fuori dai piedi.

Ma ci sono certe cose che uno deve fare da solo, no?

Così dissi: — Senti, anche tu hai dentro un po’ di Roba Calda. Mi ci sono voluti quarant’anni per capire che non stavo invecchiando. Forse tu sei della stessa stoffa. Dopo tutto siamo più o meno delle stesse parti…

— Conosci qualche altro caso come il tuo?

— Be’…

— No, non ne conosci.

— No. Non ne conosco.

Ricordo che allora desiderai essere nuovamente a bordo della mia nave. Non la grande spartiacque. La mia vecchia carcassa, la Golden Vanitie, fuori sul mare della baia. Ricordo che desiderai poterla riportare nel porto, e vedere lei per la prima splendente volta, ed essere capace di ricominciare tutto dall’inizio; e parlargliene subito, oppure ripercorrere tutto il tempo già trascorso e tenere la bocca chiusa sulla mia età.

Era un bel sogno, ma porco mondo, la luna di miele era finita. Aspettai finché ebbe smesso di piangere e sentii i suoi occhi su di me. Poi attesi ancora un poco.

— Allora? — chiesi, finalmente.

— Tutto bene, grazie.

Trovai e strinsi la sua mano passiva, me la portai alle labbra.

— Rodos dactylos — sospirai, e lei disse: — Forse è una buona idea che tu te ne vada… per un po’ almeno… — e la brezza che soffiava via il vapore ritornò, ed era umida, e ci fece venire la pelle d’oca, e fece vibrare la sua mano o la mia; non sono sicuro quale. Smosse anche le foglie, che rovesciarono sulle nostre teste la pioggia raccolta nella notte.

— Hai esagerato la tua età? — chiese lei. — Anche solo un poco?

Dal tono della sua voce era chiaro che la cosa più saggia sarebbe stata una risposta affermativa.

Così: — Sì — le dissi, sinceramente.

Lei allora tornò a sorridermi, rassicurata in qualche modo della mia umanità.

Ah!

E così restammo seduti lì, stringendoci le mani e scrutando il mattino. Dopo un po’ lei cominciò a canticchiare. Era una canzone triste, vecchia di secoli. Una ballata. Narrava la storia d’un giovane lottatore di nome Temocle, un lottatore che non era mai stato sconfitto. Alla fine giunse a credersi il migliore lottatore vivente. Alla fine gridò la propria gloria dalla cima d’una montagna, e siccome era troppo vicino alla loro dimora, gli dèi agirono in fretta: il giorno seguente arrivò in città un ragazzo zoppo, sulla schiena corazzata d’un enorme cane selvatico. Lottarono per tre giorni e tre notti, Temocle e il ragazzo, e al quarto giorno il ragazzo gli spezzò la schiena e lo lasciò lì nel campo. Ovunque cadde il suo sangue nacque lo strige-fleur, come lo chiama Emmet, il fiore succhia-sangue che di notte si muove sulle radici, cercando nel sangue della sua vittima lo spirito perduto del campione sconfitto. Ma lo spirito di Temocle se n’è andato dalla Terra, e così loro devono muoversi e cercare, per sempre. Più elementare di Eschilo, ma adesso siamo un popolo più semplice di quanto non fossimo una volta, specialmente quelli del continente. E d’altra parte, non è che sia andata davvero così.

— Perché stai piangendo? — mi chiese lei d’improvviso.

— Sto pensando al dipinto dello scudo d’Achille — dissi, — e a che terribile cosa sia essere una bestia educata, e non sto piangendo. Mi stanno cadendo addosso le foglie.

— Farò ancora un po’ di caffè.

Intanto che lei lo preparava io lavai le tazzine, e le dissi di prendersi cura della Vanitie mentre ero fuori, e di tenerla pronta nel bacino di carenaggio nel caso l’avessi mandata a chiamare. Lei disse che l’avrebbe fatto.

Il sole si alzava sempre più nel cielo, e dopo un po’ giunse un rumore di martello dal cortile del vecchio Aldones, il costruttore di bare. I ciclamini s’erano svegliati e la brezza ci portava la loro fragranza dai campi. Alto sopra di noi, come un nero segno di sventura, un pipiragno attraversò il cielo verso la terraferma. Avrei dato la testa per poter stringere le dita sul calcio d’una calibro trentasei, fare un bel po’ di rumore, e vederlo cadere. Ma le uniche armi da fuoco, per quello che sapevo, erano a bordo della Vanitie, e così mi limitai a vederlo svanire.

— Dicono che non sono nativi della Terra — m’informò lei, guardandolo sparire, — e che sono stati portati qui da Titano, per zoo e cose del genere.

— È vero.

— … E che sono sfuggiti al controllo durante i Tre Giorni e sono diventati selvatici, e qui sono cresciuti in grandezza molto più che sul loro mondo.

— Una volta ne ho visto uno con un’apertura alare di nove metri e mezzo.

— Il mio prozio mi ha raccontato una volta una storia che aveva sentito ad Atene — ricordò lei, — su un uomo che ne uccise uno senza armi. Il pipiragno l’aveva preso su dal molo dov’era seduto, nel Pireo, e lui gli ruppe il collo con le mani. Caddero giù nella baia per una trentina di metri. L’uomo sopravvisse.

— È stato molto tempo fa — rammentai — prima che l’Ufficio iniziasse la sua campagna per lo sterminio di quelle creature. Ce n’erano molti di più in giro, e in quei giorni erano piuttosto audaci. Adesso si tengono lontani dalle città.

— Il nome dell’uomo era Konstantin, se ricordo bene la storia. Non potresti essere stato tu?

— Il suo cognome era Karaghiosis.

— Tu sei Karaghiosis?

— Se così vuoi. Perché?

— Perché più tardi fu uno dei fondatori della Radpol (Radical policy, gruppo politico radicale) Ritornista ad Atene, e tu hai mani molto forti.

— Tu sei Ritornista?

— Sì. E tu?

— Io lavoro per l’Ufficio. Non ho opinioni politiche.

— Karaghiosis ha bombardato degli edifici.

— Certo che l’ha fatto.

— Ti spiace che li abbia bombardati?

— No.

— Non è che io sappia molto di te, no?

— Sai tutto di me. Non hai altro che da chiedere. Sono un tipo piuttosto semplice. Sta arrivando il mio aereo-taxi.