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Si girò e vide che quelli della Scientifica e un uomo sui quaranta con una giacca sportiva e un paio di jeans erano fuori delle transenne in attesa di istruzioni. Vivien non lo aveva mai visto ma dall’aria vagamente annoiata capì che doveva essere il medico legale. Probabilmente si era unito a loro mentre esaminava il corpo.

Vivien li raggiunse.

«Okay. Vediamo di tirarlo fuori di lì.»

Jeremy Cortese si fece avanti e indicò l’operaio che stava in piedi in disparte.

«Se volete, ho un mio uomo che non ha problemi alla vista di un cadavere. Conosce il suo mestiere e quando è libero aiuta suo cognato che ha un’impresa di onoranze funebri.»

«Lo chiami.»

Il capo cantiere fece un cenno all’operaio, che si mosse verso di loro. Era un tipo poco oltre la trentina, con un viso da ragazzo e tratti vagamente orientali. Dal casco spuntavano dei lucidi capelli scuri. Vivien pensò che nel suo albero genealogico ci dovesse essere qualcosa di asiatico.

Senza una parola li superò, si avvicinò alla parete e si chinò per prendere da terra il martello pneumatico.

Vivien si mise al suo fianco.

«Lei come si chiama?»

«Tom. Tom Dickson.»

«Bene Tom, questa è una faccenda delicata che deve essere portata a termine con estrema cautela. Tutto quello che c’è all’interno di questa nicchia potrebbe essere molto importante. Se per lei è uguale, preferirei usasse mazza e scalpello, anche se è un lavoro più lungo e faticoso.»

«Stia tranquilla. So quello che faccio. Troverà tutto come le serve.»

Vivien gli appoggiò una mano sulla spalla.

«Mi fido di te, Tom. Procedi.»

Dovette ammettere che quell’uomo sapeva davvero il fatto suo. Ampliò la breccia in modo che l’interno fosse accessibile, facendo cadere le macerie verso l’esterno ma senza spostare di un pollice la posizione del cadavere.

Vivien si fece dare una torcia elettrica da Salinas e si avvicinò per dare uno sguardo nella nicchia. La luce del giorno era ancora abbastanza forte ma all’interno c’era una leggera penombra che non permetteva di distinguere bene tutti i particolari. E Dio sapeva di quanti particolari ci fosse bisogno in un caso come quello. Fece correre il raggio luminoso sulle pareti e sui resti dell’uomo. L’esiguità dello spazio aveva impedito al corpo di scivolare a terra. Se ne stava appoggiato sul lato sinistro, la testa piegata in un angolo innaturale. Questo dettaglio aveva dato l’impressione, vedendolo dall’esterno, che avesse la testa appoggiata sulla spalla.

L’ambiente chiuso e la scarsa umidità lo avevano parzialmente mummificato, per cui era molto più integro del normale. E dunque era molto più difficile ipotizzare da quanto tempo se ne stesse nascosto fra quelle pareti.

Chi sei? Chi ti ha ucciso?

Vivien sapeva che per le famiglie di persone scomparse la cosa peggiore era l’ansia di non sapere. Qualcuno e quando

una sera, un giorno

usciva di casa e senza una ragione non ci faceva più ritorno. E in assenza della prova di un corpo, per tutta la vita le persone a lui vicine si sarebbero chieste che cosa, dove e perché. Senza mai smettere di alimentare una speranza che solo il tempo sapeva spegnere con pazienza.

Si riscosse e tornò alla sua ispezione.

Quando illuminò il terreno, si accorse che a terra, vicino ai piedi del cadavere, c’era un oggetto coperto di polvere che a prima vista sembrava una specie di portafoglio. Si fece dare un paio di guanti di lattice, si infilò nell’apertura e si chinò per raccoglierlo. Poi si rialzò e fece un gesto ai tecnici della Scientifica e al medico legale.

«Prego signori, tocca a voi.»

Mentre i tecnici si mettevano all’opera, esaminò l’oggetto che aveva in mano.

Soffiò delicatamente per togliere il velo di polvere. Il materiale era una finta pelle che doveva essere stata nera o marrone e più che un portafoglio sembrava un portadocumenti. Con cautela lo aprì. I fogli di plastica dura all’interno erano incollati e si separarono con un leggero rumore di carta stracciata.

Dentro, una per ogni lato, c’erano due foto.

Sollevò la protezione e infilò delicatamente le dita per estrarle senza rovinarle. Le esaminò alla luce della torcia. Nella prima, un ragazzo in elmetto e divisa da combattimento era appoggiato a un carro armato e guardava con occhi seri l’obiettivo. Intorno c’era una vegetazione che richiamava un Paese esotico. La girò e dietro la accolse una scritta sbiadita dal tempo, che aveva quasi cancellato alcune lettere, ma non a sufficienza da renderle illeggibili.

Cu Chi District 1971

La seconda, molto meglio conservata, la sorprese. Il soggetto era lo stesso ragazzo che in quella precedente guardava il fotografo con aria riflessiva. Qui era in borghese, con una T-shirt a disegni psichedelici e dei pantaloni da lavoro. In quest’immagine aveva i capelli lunghi e sorrideva, tendendo verso l’obiettivo un grosso gatto nero. Studiò attentamente la persona e l’animale. All’inizio pensò che si trattasse di una deformazione provocata dalla prospettiva, ma poi si rese conto che la prima impressione era stata quella giusta.

Il gatto aveva solo tre zampe.

Dietro non c’era nessuna scritta.

Si fece dare da Bowman, l’altro agente, due buste di plastica e ci infilò il portadocumenti e le fotografie. Raggiunse Frank Ritter, il caposquadra della Scientifica con il quale aveva già collaborato in passato, e gliele porse.

«Vorrei che analizzaste questo materiale. Impronte digitali, se ce ne sono, e un esame dei vestiti della vittima con annessi e connessi. Inoltre vorrei un ingrandimento delle foto.»

«Vedremo quel che si può fare. Ma se fossi in te non ci farei troppo affidamento. Mi sembra tutto piuttosto datato.»

E avevo bisogno che me lo dicessi tu…

Vide che nel frattempo il cadavere era stato spostato e appoggiato con delicatezza su una barella. Il medico legale era in piedi davanti al corpo. Si avvicinò per esaminarlo. Quello che era stato un uomo aveva raggiunto il suo ultimo giorno indossando un giubbetto di panno e un paio di pantaloni che all’apparenza dovevano essere stati di una qualità del tutto ordinaria.

Il coroner girò intorno alla barella e si mise al fianco di Vivien.

Limitarono le presentazioni al minimo indispensabile.

«Jack Borman.»

«Vivien Light.»

Sapevano tutti e due chi erano, dov’erano e cosa stavano facendo. Ogni altra considerazione, in quel momento, passava in secondo piano.

«Riesce a darmi un’idea delle cause della morte?»

«Dalla posizione della testa del cadavere, senza usare termini tecnici, posso azzardare che qualcuno gli ha spezzato l’osso del collo. Con che cosa non lo so. Sarò più chiaro dopo l’autopsia.»

«Da quanto tempo pensa che sia lì?»

«Dallo stato di conservazione del corpo direi circa una quindicina d’anni.

Però contano anche le condizioni del luogo in cui era nascosto. Comunque ci arriveremo con le analisi dei tessuti. In questo credo potranno anche essere utili gli esami della Scientifica sulla stoffa dei vestiti.»

«Grazie.»

«Non c’è di che.»

Mentre il coroner si allontanava, Vivien si rese conto che tutto quello che si poteva fare era stato fatto. Diede l’ordine di rimuovere la salma, salutò i presenti e lasciò gli uomini alle loro incombenze. A questo punto, ritenne inutile parlare con l’operaio che aveva trovato per primo il corpo.

Aveva dato a Bowman l’incarico di prendere i dati di tutte le persone che avrebbero potuto essere utili alle indagini. Le avrebbe sentite in un secondo tempo, compreso il signor Charles Brokens proprietario della compagnia che tutte le mattine si svegliava con quella moglie nel letto.

In un caso di omicidio come quello, i dati più interessanti di solito venivano dalle rilevazioni tecniche più che dalle testimonianze. Dopo di che avrebbe messo a punto un piano d’azione.