L’unica nota strana, inusuale, era una libreria alla parete di sinistra, piena di volumi perfettamente ordinati e disposti in ordine alfabetico. Altri erano sparsi per la casa. Addirittura una pila di libri faceva da tavolino da notte sulla parte destra del letto.
Ziggy appoggiò la borsa sul tavolo ingombro di vecchie riviste e si tolse la giacca, buttandola su una poltrona. Prese la borsa e andò a sedersi sul letto. La aprì e iniziò a svuotarla e ad appoggiare sul lenzuolo il suo contenuto. C’erano due quotidiani, il «New York Times» e «Usa Today», una scatola di plastica gialla e blu che si rivelò essere un mini-kit di attrezzi da lavoro, un rotolo di filo di rame e uno di nastro adesivo grigio, quello che usano gli elettricisti. Poi tirò fuori quello che tendeva la borsa e dava il maggior peso. Un album portafoto con la copertina di pelle marrone e fogli di carta ruvida dello stesso colore, pieni di vecchie immagini in bianco e nero, gente che non conosceva in posti che non conosceva. Tutte foto piuttosto datate. Dall’abbigliamento, a spanne avrebbe detto che si trattava degli anni Settanta. Scorse qualche pagina.
Un’immagine attrasse la sua attenzione. La tolse dalle linguette adesive che la fissavano alla carta e rimase qualche istante a fissarla. Un ragazzo con i capelli lunghi e sulle labbra un sorriso che non riusciva a salire fino ai suoi occhi, aveva in braccio un grosso gatto nero. Lo scatto, in modo del tutto casuale, era riuscito a catturare una strana appartenenza reciproca, come se quei due esseri viventi, nelle rispettive specie, fossero uno il riflesso dell’altro.
La fece scivolare nel taschino della camicia. Continuò nella sua esplorazione del contenuto della borsa. Estrasse un oggetto di plastica nero, di forma rettangolare, leggermente più lungo e più stretto di un pacchetto di sigarette, fermato a metà da un giro di nastro per evitare che si aprisse. A una estremità c’era una serie di pulsanti di diverso colore.
Ziggy rimase un attimo a guardarlo, interdetto. Sembrava un telecomando artigianale. Rudimentale forse, ma l’impressione era quella.
Lo appoggiò di fianco alle altre cose e tirò fuori dalla borsa l’ultimo oggetto che conteneva. Era una grossa busta marrone, un poco spiegazzata, con scritto un nome e un indirizzo già in parte sbiaditi dall’usura. Dalle dimensioni si sarebbe detto che era servita per spedire il volume con le foto.
La aprì per controllare l’interno e ci trovò dei fogli di carta comune scritti a mano con una calligrafia rozza ma abbastanza leggibile. La scrittura di un uomo che forse non aveva molta dimestichezza con le parole, sia parlate che scritte.
Ziggy iniziò a leggere. I primi fogli erano piuttosto noiosi, pieni di un racconto di vita esposto in modo rude e a volte disarticolato. Lui era uno che leggeva libri e sapeva riconoscere la mano di un uomo che aveva studiato e che sapeva scrivere. Quella non lo era.
Però si accorse che la lettura non era priva di un certo fascino, nonostante la prosa non certo da scrittore. Per quello che raccontava, piuttosto che come. Continuò a leggere con sempre maggiore attenzione e a poco a poco l’attenzione divenne interesse e infine una specie di febbre.
Al termine della lettera, non poté fare a meno di scattare in piedi. Sentì un leggero brivido percorrergli la schiena e i peli delle sue braccia rizzarsi come per effetto di un campo elettrico.
Ziggy Stardust non riusciva a credere ai suoi occhi. Si risedette lento, con le gambe aperte e lo sguardo verso un punto imprecisato. Più del tempo che dello spazio.
La grande occasione era arrivata.
Quello che aveva in mano poteva valere milioni di dollari, trovando la gente giusta. Gli girava la testa all’idea. I possibili vantaggi per lui gli fecero dimenticare le sicure conseguenze per altri.
Appoggiò i fogli sul letto con attenzione esagerata, quasi fossero oggetti fragili. Poi iniziò a pensare come trarre profitto da quella fortuna inaspettata. A come muoversi e come fare per distillare il materiale in modo da suscitare il massimo interesse e avere il massimo tornaconto.
E soprattutto a chi contattare.
Diversi pensieri fecero diversi passaggi alla velocità della luce nel suo cervello.
Accese la stampante e mise i fogli sul tavolo accanto al monitor del computer. La prima cosa importante era fare delle fotocopie. Una copia sarebbe bastata a suscitare l’interesse di chiunque e quel chiunque avrebbe dovuto essere disposto a sborsare una bella cifra pur di entrare in possesso dell’originale. Che doveva rimanere in suo possesso fino alla conclusione dell’affare. Una volta fatte le fotocopie, avrebbe tenuto con sé solo la parte sufficiente a lasciare immaginare senza rivelare nulla di decisivo. Il resto lo avrebbe distrutto. La copia autentica di quella lettera benedetta l’avrebbe messa in una busta e l’avrebbe spedita a una casella di posta anonima della quale a volte si serviva. Lì avrebbe riposato finché qualcuno non gli avesse dato motivo di andarla a ritirare.
E quel motivo poteva essere rappresentato solo da una bella quantità di denaro.
Iniziò a fotocopiare, disponendo di volta in volta gli originali di fianco alla copia. Ziggy era un tipo preciso, sul lavoro. E quello era il lavoro più importante che gli fosse mai capitato nella vita.
Pose uno degli ultimi fogli sul vetro dello scanner, abbassò il coperchio e premette il pulsante di avvio. La luce di scansione percorse la macchina fino ad avere in memoria la pagina completa. Al momento di stampare, il sensore avvertì che la carta era finita e un led arancione si mise a lampeggiare sul lato sinistro dell’apparecchio.
Ziggy andò a prendere dei fogli da una risma che teneva appoggiata su uno scaffale della libreria e li introdusse nel cassettino.
In quel momento sentì un rumore alle sue spalle, un leggero crac metallico, come quello di una chiave che si spezza nella toppa. Si girò in tempo per vedere la porta che si apriva e per vedere un uomo con una giacca verde.
No, non ora, non adesso che era tutto a portata di mano…
E invece davanti a sé aveva una mano che reggeva un coltello.
Di certo era la lama con cui aveva forzato quello straccio di serratura. E dallo sguardo dell’uomo capiva che non si sarebbe limitato a quello.
Sentì che le gambe gli cedevano e non ebbe la forza di dire nulla. Mentre l’uomo avanzava verso di lui, Ziggy Stardust si mise a piangere. Per la paura del dolore e per la paura della morte.
Ma soprattutto per la delusione.
CAPITOLO 11
La Volvo si muoveva senza difficoltà in mezzo al traffico che la stava trascinando verso il Bronx. A quell’ora, salire verso nord poteva essere un vero e proprio viaggio. Tuttavia, una volta uscita da Manhattan, Vivien aveva trovato un flusso abbastanza fluido. Da che si era lasciata alla destra il Triborough Bridge, aveva percorso la Bruckner Expressway in un tempo relativamente breve.
Il sole stava scendendo alle sue spalle e la città si preparava al tramonto.
Il cielo aveva una luminosità azzurro cupo, netta al punto tale da parere lavorata a mano. Il colore che solo la brezza di New York sapeva regalare, quando arrivava a ripulire quel piccolo tratto di infinito che ognuno si illudeva di avere sopra di sé.
Il telefono della macchina interruppe la musica che veniva dalla radio.
L’aveva lasciata in sottofondo, a basso volume, un suono con regole e intenzioni precise a mescolarsi con il brusio informe del traffico.
Attivò il vivavoce e diede a chi la chiamava il permesso di entrare. Nella sua macchina e nei suoi pensieri.
«Vivien?»
«Sì.»
«Ciao, sono Nathan.»
Precisazione inutile. Aveva riconosciuto la voce di suo cognato.
L’avrebbe riconosciuta anche in mezzo al fragore di una battaglia.
Cosa vuoi, pezzo di merda? pensò.
«Cosa vuoi, pezzo di merda?» disse.