Avevano ripreso quel gioco, di quando lei era bambina, di quando si erano scambiate quei soprannomi che ne erano in qualche modo il codice.
Di quando Vivien le pettinava i capelli e le raccontava che un giorno sarebbe diventata una donna splendida. Forse una modella, forse un’attrice.
E insieme immaginavano tutto quello che avrebbe potuto essere.
Tutto, meno quello che effettivamente è stato…
«Che dici, andiamo?»
«Certo. Io sono pronta.»
Aveva sollevato leggermente la sacca che conteneva il cambio di abiti per quei giorni che avrebbero passato insieme.
«Ti sei portata i vestiti da rock?»
«Uniforme al seguito.»
Vivien era riuscita ad avere due biglietti per il concerto degli U2 del giorno dopo, al Madison Square Garden. Sundance era una fan della band e questa circostanza aveva favorito non poco la concessione di quei due giorni di licenza da Joy.
«Allora andiamo.»
Si avvicinarono a John. Era un tipo di statura media, dal fisico energico, vestito con un semplice paio di jeans e una felpa. Aveva un viso aperto, occhi senza sorprese e l’aria propositiva di chi pensa più al futuro che al passato.
«Ciao, Sundance. Ci vediamo lunedì.»
Vivien tese la mano. L’uomo la strinse, con una presa salda.
«Grazie, John.»
«Grazie a te. Divertiti e falla divertire. Andate pure, io mi fermo ancora un poco qui.»
Uscirono, lasciando l’uomo nella calma della chiesa.
La sera aveva cacciato ogni traccia di luce naturale per vestirsi ad arte di luci artificiali. Salirono in macchina e si avviarono verso Manhattan, il trionfo di quel make-up luminoso. Vivien guidava tranquilla e ascoltava quello che la nipote le diceva, lasciando campo libero a qualunque argomento lei decidesse di trattare.
Non nominò la madre e nemmeno la ragazza lo fece, come se per un tacito accordo ogni pensiero oscuro fosse bandito da quel momento. Non era per ingannare o ignorare la memoria. Ognuna delle due custodiva dentro di sé, senza bisogno di dirlo, la certezza che quello che stavano provando a ricostruire non era per loro due soltanto.
Continuarono in quel modo, finché Vivien ebbe la sensazione che a ogni giro delle ruote, a ogni battito del polso, perdevano un poco del loro ruolo di zia e nipote per diventare un poco più amiche. Sentì che qualcosa dentro si scioglieva, che sbiadiva l’immagine di Greta che tormentava i suoi giorni e l’immagine di Sundance nuda fra le braccia di un uomo più vecchio di suo padre che tormentava le sue notti.
Si erano lasciate alle spalle Roosevelt Island e stavano costeggiando l’East River verso Downtown quando accadde. Circa mezzo miglio davanti a loro, sulla destra, di colpo una luce arrivò a sovrapporsi e a cancellare tutte le altre e per un attimo sembrò il concentrato di tutte le luci del mondo.
Poi la strada parve tremare sotto le ruote della macchina e attraverso i finestrini aperti arrivò il rombo avido di un’esplosione.
CAPITOLO 12
Russell Wade era appena rientrato a casa quando all’improvviso un lucido bagliore inatteso arrivò dal Lower East Side. Le grandi finestre dal soffitto al pavimento del soggiorno divennero la cornice di quel lampo, così vivido da sembrare quasi un gioco. Ma il lampo non si spense e continuò ad ardere nascondendo tutte le luci in lontananza. Attraverso il filtro dei vetri antisfondamento arrivò sordo un rombo che non era tuono ma la sua umana distruttiva imitazione. E poi una sinfonia eterogenea di dispositivi d’allarme, messi in funzione dallo spostamento d’aria, isterici senza ferocia, come inutili piccoli cani abbaianti dietro a un’inferriata.
La vibrazione gli fece fare istintivamente un passo indietro. Sapeva quello che era successo. Lo aveva capito subito. L’aveva già visto e provato sulla sua pelle, altrove. Sapeva che quel bagliore significava incredulità e sorpresa, dolore e polvere, urla, feriti, bestemmie e preghiere.
Significava morte.
E, in un bagliore altrettanto improvviso, un flash di immagini e ricordi.
«Robert, ti prego…»
E suo fratello già preso dall’ansia che stava controllando le macchine e gli obiettivi e che i rullini fossero al loro posto nelle tasche del giubbetto.
Senza guardarlo in faccia. Forse si vergognava per questo. Forse nella sua mente stava già vedendo le foto che avrebbe scattato.
«Non succederà nulla, Russell. Tu devi solo stare qui tranquillo.»
«E tu dove vai?»
Robert aveva sentito l’odore della sua paura. Era abituato a quell’odore.
Tutta la città ne era impregnata. Si respirava nell’aria. Come un brutto presentimento che si avvera, come un incubo che non sparisce al risveglio, come le urla di moribondi che non finiscono dopo la loro morte.
Lo aveva guardato con occhi che forse lo vedevano per la prima volta da che erano arrivati a Pristina. Un ragazzo spaventato che non doveva essere lì.
«Devo andare là fuori. Devo esserci.»
Russell aveva capito che non poteva essere che così. E nello stesso momento aveva realizzato che non avrebbe mai potuto, neanche in cento vite, essere come suo fratello. Era tornato in cantina, sotto la botola coperta dal vecchio tappeto farinoso e Robert era uscito dalla porta. Nel sole nella polvere nella guerra.
Era stata l’ultima volta che lo aveva visto vivo.
Come reazione a quel pensiero, corse in camera da letto, dove sulla scrivania era appoggiata una delle sue macchine fotografiche. La prese e tornò alla finestra. Spense tutte le luci per evitare il riflesso e scattò diverse inquadrature di quel bagliore lontano, ipnotico, circondato da un’aura di luce malsana. Sapeva che quelle foto non sarebbero state di nessuna utilità ma lo fece per punire se stesso. Per ricordare chi era, cosa aveva fatto, cosa non aveva fatto.
Erano passati anni da che suo fratello era uscito da quella porta trafitta dal sole, amplificando per qualche istante il ticchettare lontano di raffiche di mitra.
Nulla era cambiato.
Da quel giorno in poi, non c’era stato mattino che non si fosse svegliato con quell’immagine davanti agli occhi e quel suono nelle orecchie. Da allora in poi, ogni suo inutile scatto era stato solo un nuovo fotogramma di quella sua antica paura. Mentre continuava a inquadrare e a premere il pulsante, iniziò a tremare. Un tremito di rabbia, animale, senza gemiti, di puro istinto, come se fosse la sua anima in realtà a rabbrividire dentro di lui e avesse il potere di scuotere e percuotere il suo corpo.
Lo schiocco dell’obiettivo divenne nevrotico
cli-clok
cli-clok
cli-clok
cli-clok
cli-clok
come nella isterica furia omicida di chi ha sparato addosso alla sua vittima
Robert
tutte le cartucce a disposizione e che tuttavia non riesce a smettere di tirare il grilletto e continua, per inerzia dei nervi, ottenendo in cambio solo lo scatto vuoto e secco del percussore.
Basta, cazzo!
Puntuale come una replica dovuta, arrivò dall’esterno il suono acuto e urgente delle sirene.
Lampi senza collera.
Lampi di luce accesa buona sana veloce. Polizia, pompieri, ambulanze.
La città era colpita, la città era ferita, la città chiedeva aiuto. E tutti accorrevano, da tutte le parti, con la rapidità che la misericordia e la civiltà mettevano loro a disposizione.
Russell smise di scattare e al chiarore che proveniva dall’esterno trovò il telecomando del televisore. Lo accese e lo trovò automaticamente sintonizzato su NY1. In quel momento erano in programma le previsioni del tempo. La trasmissione fu interrotta due secondi dopo che lo schermo si era illuminato. L’uomo davanti alle cartine con il sole e la pioggia fu sostituito senza preavviso da un primo piano di Faber Andrews, uno degli anchorman del canale. Una voce profonda, un volto serio e compreso nella situazione, non per mestiere, ma per umanità.