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«Abbiamo appena avuto notizia che una forte esplosione ha sconvolto un palazzo nel Lower East Side di New York City. Le prime voci parlano di un numero imprecisato di vittime, ma che pare piuttosto elevato. Non abbiamo modo di riportare altro. Attualmente non conosciamo le cause e i motivi di questo fatto funesto che speriamo in seguito di poter ridimensionare nella sua gravità e non dover definire criminale. Il ricordo di avvenimenti altrettanto luttuosi del recente passato è ancora nel ricordo di tutti. In questo momento tutta la città, tutta l’America, forse tutto il mondo stanno aspettando con il fiato sospeso di sapere. I nostri corrispondenti si sono già mossi per raggiungere il luogo dell’incidente e fra poco saremo in grado di darvi notizie più aggiornate. Per ora è tutto.»

Russell si spostò sulla CNN. Anche qui stavano dando un annuncio che, con visi e parole differenti, era nel senso uguale a quello di NY1. Tolse l’audio, lasciando alle immagini il compito di riferire. Rimase seduto sul divano davanti al televisore, con la sola lanugine luminosa dello schermo a fargli compagnia. Le luci della città oltre le vetrate sembravano provenire dal freddo e dalla lontananza dello spazio siderale. E in basso, a sinistra, c’era quella luce da sole assassino a divorare tutte le altre stelle. Quando i suoi gli avevano regalato quell’appartamento, era stato contento di essere al ventinovesimo piano e che da lì ci fosse una vista stupenda su tutta Downtown, con il Brooklyn e il Manhattan Bridge sulla sinistra e il Flatiron a destra e il New York Life Insurance Building proprio di fronte a lui.

Ora quella vista era solo un altro motivo di angoscia.

Tutto era successo così in fretta. Tutto era andato così veloce da che era stato rilasciato dopo la notte in prigione. Eppure, se ci ripensava, le immagini nella sua testa si muovevano come al rallentatore. Era chiaro ogni istante, ogni sfumatura, ogni colore, ogni sensazione. Come una condanna a rivivere quegli istanti all’infinito.

Come fosse di nuovo e per sempre Pristina.

Il viaggio dal Distretto di Polizia a casa era iniziato in silenzio. E secondo le sue intenzioni, così avrebbe dovuto essere per tutto il tempo.

L’avvocato Corneill Thornton, un vecchio amico di famiglia, lo aveva capito e fino a un certo punto si era adeguato.

Poi la tregua era finita. Ed era arrivato l’attacco.

«Tua madre è molto in pensiero per te.»

Senza guardarlo, Russell aveva risposto con un’alzata di spalle.

«Mia madre è sempre in pensiero per qualcosa.»

Gli erano venuti in mente la figura inappuntabile e il viso levigato di Margareth Taylor Wade, appartenente all’alta borghesia di Boston, che nella scala di valori di quella città poteva essere considerata una vera e propria aristocrazia. Boston era la città più europea di tutta la East Coast, forse d’America. Dunque la più esclusiva. E lei ne era una delle rappresentanti di maggiore spicco. Margareth si muoveva con grazia ed eleganza nel mondo con il suo viso dolce da donna che non meritava quello che la vita le aveva riservato: un figlio ucciso durante un reportage di guerra nell’ex Jugoslavia e l’altro protagonista di una vita che, se possibile, era un dolore ancora peggiore.

Forse non si era mai ripresa, né da una cosa né dall’altra. Ma continuava la sua vita di distinzione e memoria perché erano imprescindibili da lei. Con suo padre, Russell non parlava dal giorno successivo a quella maledetta faccenda del Pulitzer.

Dal loro atteggiamento nei suoi confronti, fin dai primi tempi, Russell aveva sempre ricavato un sospetto. Forse ognuno dei due pensava che era morto il fratello sbagliato.

L’avvocato aveva continuato nel suo approccio, che Russell sapeva benissimo dove sarebbe arrivato.

«Le ho detto che sei ferito. Lei pensa sarebbe opportuno che tu ti facessi vedere da un medico.»

A Russell venne da sorridere.

Opportuno…

«Mia madre è ineccepibile. Oltre che la parola giusta al momento giusto, sa sempre scegliere anche la più elegante.»

Thornton si era appoggiato allo schienale di cuoio. Le sue spalle si erano rilassate come succede di fronte alle situazioni senza speranza.

«Russell, io ti conosco da quando eri un ragazzino. Non pensi che…»

«Avvocato, lei non è qui per condannare o per assolvere. Per quello ci sono i giudici. Né per farmi prediche. Per quello ci sono i preti. Lei deve solo tirarmi fuori dai pasticci, quando le viene richiesto.»

Russell si era girato a guardarlo con un mezzo sorriso.

«Mi pare che sia pagato per farlo. Profumatamente, con una parcella oraria che è il corrispettivo del salario settimanale di un operaio.»

«Tirarti fuori dai pasticci, dici? È quello che continuo a fare.

Ultimamente mi pare che accada più sovente di quanto sia legittimo aspettarsi.»

L’avvocato aveva fatto una pausa. Come per decidere se dire o non dire.

Infine aveva scelto la prima soluzione.

«Russell, ognuno ha il diritto, sancito dalla Costituzione e dal suo cervello, di distruggersi come meglio crede. E tu hai una fantasia estremamente creativa, in quella direzione.»

Lo aveva guardato negli occhi e da avvocato difensore si era trasformato in compiaciuto carnefice.

«Da ora in poi, sarò lieto di rinunciare alla parcella. Dirò a tua madre, quando servirà, di rivolgersi altrove. E me ne starò seduto, con un sigaro e un bicchiere di buon whisky in mano, a guardare lo spettacolo della tua demolizione.»

Null’altro era stato detto perché null’altro c’era da dire. La limousine lo aveva lasciato davanti a casa, sulla 29sima, fra la Park e la Madison. Era sceso senza salutare e senza aspettare un saluto. Il tutto alla luce di un velato disprezzo umano e di una efficace indifferenza professionale. Era salito nel suo appartamento, dopo aver afferrato al volo le chiavi che gli tendeva il doorman. Aveva appena aperto la porta che il telefono si era messo a squillare. Russell era certo di sapere chi era. Aveva sollevato la cornetta e aveva detto

«Pronto?»

aspettandosi di sentire una voce. E quella voce era arrivata.

«Ciao, fotografo. Ti ha detto male ieri, eh? Al gioco e con gli sbirri.»

Russell aveva visualizzato un’immagine. Un uomo di colore, grosso, con perenni occhiali scuri e con un doppio mento che il pizzetto cercava invano di mascherare, la mano piena di anelli che reggeva un cellulare, sprofondato nel sedile posteriore della sua Mercedes.

«LaMarr, non sono nello stato d’animo giusto per sentire le tue stronzate. Che vuoi?»

«Lo sai che voglio, giovanotto. Soldi.»

«In questo momento non li ho.»

«Bene. Temo che farai meglio ad averli quanto prima.»

«Che hai intenzione di fare? Spararmi?»

Dall’altra parte era arrivata una risata piena di forza e di scherno. E una minaccia ancora più umiliante.