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«La tentazione è forte. Ma non sono così scemo da metterti in una cassa con in tasca i cinquantamila dollari che mi devi. Semplicemente ti manderò un paio di miei ragazzi che ti spiegheranno alcune cose della vita. Poi ti lascerò il tempo di guarire. E poi te li manderò di nuovo, finché li accoglierai con in mano i miei soldi, che nel frattempo saranno diventati sessantamila, se non di più.»

«Sei un pezzo di merda, LaMarr.»

«Sì. E non vedo l’ora di dimostrarti fino a che punto. Ciao, fotografo delle mie chiappe. Prova con La Ruota della Fortuna, magari ti andrà meglio.»

Russell aveva riattaccato, le mascelle contratte, annegando nei fili l’eco della risata di LaMarr Monroe, uno dei più grandi figli di puttana che popolavano le notti di New York. Purtroppo, Russell sapeva che non parlava a vanvera. Era un tipo che manteneva quello che prometteva, specie quando correva il rischio di perdere la faccia.

Era andato in camera da letto e si era spogliato, gettando i vestiti a terra. La giacca strappata era finita nella spazzatura. Si era spostato in bagno, si era imposto di farsi una doccia e la barba, con la tentazione di mettere la schiuma sullo specchio invece che sul viso. Per non vedere la sua faccia. Per non vedere la sua espressione. Dopo, si era trovato da solo in casa. E per lui quella definizione significava essere a casa senza nulla da bere, senza un tiro di cocaina e senza un centesimo in tasca.

L’appartamento in cui viveva era ufficiosamente suo ma in realtà era intestato a una società della famiglia. Anche i mobili erano stati scelti con gusto da un arredatore pagato da sua madre fra la vasta scelta a prezzo popolare dell’Ikea e di altri magazzini simili. Il motivo era semplice. Tutti sapevano che Russell si sarebbe rivenduto qualunque cosa di valore con cui fosse venuto a contatto e che i soldi li avrebbe investiti a un tavolo da gioco.

Cosa che era successa con regolarità in passato.

Auto, orologi, quadri, tappeti.

Tutto.

Con furia distruttiva e precisione maniacale.

Russell si era seduto su un divano. Avrebbe potuto telefonare a Miriam o a un’altra delle modelle che frequentava in quel periodo, ma averle in giro per casa significava a un certo punto essere in grado di mettere sul piano del tavolo un poco di polverina bianca. E avere il denaro per portarle fuori. In quel momento, in cui non aveva niente dentro, sentiva il desiderio di avere almeno delle cose intorno. E ognuna di quelle cose costava denaro. Un pensiero aveva attraversato la sua mente.

O meglio, un nome.

Ziggy.

Aveva conosciuto quell’ometto stinto diversi anni prima. Era un informatore di suo fratello, uno che a volte gli faceva soffiate su movimenti interessanti di quella vita della città che lui definiva «oltre la linea di frontiera», quelli che era giusto sapere perché ogni fatto poteva diventare notizia. Dopo la morte di Robert erano rimasti in contatto, per motivi ben diversi. Uno dei quali era che, in memoria di suo fratello, gli procurava quello che gli serviva e gli faceva credito. E qualche piccolo prestito quando, come adesso, era con l’acqua alla gola. Russell ignorava il motivo di quell’attaccamento e di quella fiducia. Ma era un dato acquisito e quando era necessario ne approfittava.

Purtroppo Ziggy non usava il cellulare e la trafila per arrivare a lui era troppo lunga. Dopo alcuni passeggi nervosi fra il soggiorno e la camera da letto, aveva preso una decisione. Era sceso in garage e aveva tirato fuori la macchina, che guidava di rado e malvolentieri. Forse perché era una Nissan da poche migliaia di dollari e sul libretto di circolazione non c’era il suo nome. Controllò che nel serbatoio ci fosse benzina a sufficienza per l’andata e il ritorno. Sapeva dove abitava Ziggy e si era avviato seguendo gli strattoni del traffico verso Brooklyn. Il viaggio era stato una specie di automatismo. Aveva visto scorrere la città senza vederla, per ripagare il fatto che la città non vedeva lui.

Il labbro gli faceva male e gli occhi gli bruciavano, nonostante gli occhiali da sole.

Aveva passato il ponte ignorando gli skyline di Manhattan e di Brooklyn Heights e si era addentrato nei quartieri dove gente qualunque viveva una vita qualunque. Posti senza illusioni e senza risultati, disegnati a tratto ruvido con i colori sbiaditi della realtà, posti che frequentava spesso perché erano quelli in cui nascevano le bische clandestine e dove chiunque poteva trovare quello che gli serviva.

Bastava avere pochi scrupoli e parecchio denaro.

Era arrivato a casa di Ziggy quasi senza accorgersene. Aveva parcheggiato poco oltre l’edificio e dopo alcuni passi si era trovato a spingere la porta d’ingresso e a scendere i gradini che portavano al seminterrato. Qui non c’erano portieri e il citofono era una formalità ormai superata da tempo. In fondo alla scala aveva piegato a sinistra. I muri erano fatti di mattoni industriali verniciati frettolosamente di un colore che un tempo doveva essere stato beige. Le pareti erano tutte macchiate e c’era nell’aria odore di cavolo lesso e di umidità. Appena girato l’angolo, si era trovato di fronte una sequenza di porte marrone sbiadito. Una persona stava uscendo da quella verso cui era diretto, in fondo al corridoio, sulla destra. Un uomo con una giacca militare verde e un cappuccio blu alzato a coprire la testa, che si era mosso a passo deciso verso l’altra parte del corridoio, per sparire dietro l’angolo opposto, sulla scala che portava all’ingresso sul cortile.

Russell non ci aveva fatto molto caso. Aveva pensato fosse solo uno dei mille contatti che doveva avere ogni giorno quel trafficone di Ziggy.

Quando era arrivato all’altezza dell’uscio, aveva trovato il battente accostato. Aveva spinto la maniglia e il suo sguardo aveva inquadrato la stanza e poi tutto era successo con la velocità di un lampo e la scansione a fotogrammi di una moviola.

Ziggy in ginocchio a terra con la camicia tutta macchiata di sangue che stava cercando di tirarsi in piedi aggrappandosi a una sedia

lui che si avvicinava e la mano scarna dell’uomo arpionata al suo braccio Ziggy appoggiato al bordo del tavolo con la mano tesa verso la stampante

lui che non capiva

Ziggy con il dito che premeva un tasto lasciando una traccia rossa lui che ascoltava senza sentire il fruscio del foglio stampato che usciva sul carrello

Ziggy con in mano una foto

lui terrorizzato

e infine Ziggy che con una contrazione aveva gettato fuori l’ultimo respiro e l’ultimo fiotto di sangue dalla bocca aperta. Era caduto a terra con un rumore sordo e Russell si era trovato in piedi, in mezzo alla stanza, con in mano una foto in bianco e nero e un foglio stampato, tutti e due macchiati di rosso.

E negli occhi l’immagine di suo fratello steso insanguinato nella polvere.

Muovendosi come un manichino, senza alcuna coscienza dei suoi gesti, aveva infilato il foglio e la foto in una tasca. Poi, seguendo la logica e l’istinto degli animali, era fuggito lasciando la ragione dietro di sé, in quel posto che sapeva di cavolo lesso e di umidità e di presente e di passato.

Aveva raggiunto la macchina senza incontrare nessuno. Era partito imponendosi di non andare veloce per non attirare l’attenzione. Aveva guidato come in trance fino a che il respiro era tornato normale e il battito del cuore una anomalia risolta. A quel punto aveva fermato la macchina in un vicolo e si era messo a riflettere. Si era detto che fuggendo aveva fatto senza dubbio una scelta istintiva ma nello stesso momento era certo che fosse anche la scelta sbagliata. Avrebbe dovuto chiamare la Polizia.